lunedì 31 dicembre 2007

Piero Calamandrei e la Costituzione ,di Giuliano Vassalli




PIERO CALAMANDREI E LA COSTITUZIONE

di Giuliano Vassalli


Saluto anzitutto Aldo Aniasi, presidente della FIAP, Paolo Vittorelli, che presiede l'odierno convegno, il Sindaco di Salice Terme e le altre autorità presenti, i compagni della FIAP e tutti gli amici qui convenuti. E premetto di ben comprendere come il Consiglio federale della FIAP abbia voluto scegliere a conclusione del proprio Congresso e nel quadro delle cerimonie celebrative del cinquantennale della Costituzione il tema cui questo convegno è dedicato. Ed infatti Piero Calamandrei, già aderente all'Unione Nazionale di Giovanni Amendola e firmatario come giovane professore (era nato nel 1889) del "Manifesto degli intellettuali" redatto da Benedetto Croce, partecipe delle proteste formulate contro il fascismo già al potere dal Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Firenze, da "Italia Libera" e dal Circolo fiorentino di cultura, fatto oggetto di minacce squadristiche contro le quali aveva tenuto un contegno dignitosissimo, collaboratore del foglio "Non mollare" e chiusosi poi durante il ventennio nei suoi studi severi di diritto processuale civile e nella professione forense, era approdato nel 1941 in "Giustizia e libertà" e nell'anno successivo nel Partito d'azione, costituitosi in Italia nella clandestinità. Ed a questa grande forza della Resistenza fu sempre vicino, rappresentandola nel 1945-1946 alla Consulta nazionale e nel 1946-1948 all'Assemblea costituente.Piero Calamandrei della Resistenza fu inoltre tra i massimi interpreti e suo cantore.Come scrisse Ferruccio Parri, nome caro a questa Federazione e soggetto di un bellissimo libro di Aldo Aniasi, "nella biografia di Calamandrei il momento della Resistenza è decisivo. Egli la visse - prosegue Parri in un discorso tenuto all'indomani della morte di Calamandrei - e la sentì con una passione più forte, più ansiosa che se avesse potuto parteciparvi. La intese e ne dette l'interpretazione storica con più acutezza e prima di qualsiasi altro".Tra gli altri molti amici ed estimatori di Calamandrei, che pur dovrebbero esser qui menzionati per i forti contributi in vario tempo forniti alla ricostruzione della sua figura, vorrei menzionare anche Alessandro Galante Garrone, che in uno scritto veramente poderoso intitolato "Calamandrei e la Resistenza" e pubblicato in un numero straordinario de "Il Ponte" del 1958, volle cogliere questa interpretazione della Resistenza data appunto da Calamandrei: "La guerra di liberazione fu, da parte del nostro popolo, la riscoperta della dignità dell'uomo. Il detto di Beccaria, secondo cui "non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi d'esser persona e diventi cosa", questa rivendicazione della dignità dell'uomo fu come l'epigrammatica definizione di ciò che nel suo momento più alto gli era apparsa la Resistenza: rivendicazione della libertà dell'uomo, persona e non cosa".Essa fu infatti la morale contro le torture inflitte dal nazismo e dai suoi satelliti all'Europa e nel mondo. La rivolta contro quel mare di sterminio che sembrò ad un certo momento dover sommergere tanta parte dell'umanità.Con questo richiamo a Beccaria e alla sua umanità confluirono in Calamandrei, nel tentativo di rendere l'idea profonda della Resistenza, quello che altri (come Cotta) chiamerà il suo "tessuto etico", il riferimento alla "religione di libertà" di Benedetto Croce e alla moralità di Giuseppe Mazzini. Non si può dimenticare che il padre di Calamandrei, Rodolfo, era stato deputato repubblicano (ad esso il figlio dedicò lo straordinario ricordo "Niente di mio"), che Calamandrei stesso era stato volontario nella prima guerra mondiale ed aveva avuto la ventura d'essere con il suo 218° reggimento di fanteria il primo ufficiale italiano a penetrare in Trento liberata e che insomma tutta la sua gioventù era impregnata di ideali insieme patriottici e libertari. Tutti questi filoni ideali gli sembrarono come convogliarsi nella lotta di liberazione, in una aspirazione di riscatto, che per tanti e tanti si tradusse in un terribile e tuttavia consapevole sacrificio.Ma Calamandrei fu anche - come ha scritto Aldo Garosci - l'autentico "cantore della Resistenza". In gioventù Calamandrei era effettivamente stato poeta: così come continuò ad essere pittore ed autore letterario per tutta la vita. E poeta si era sempre mantenuto nell'animo, pur coltivando i suoi studi giuridici con il rigore dell'autentico scienziato. Il suo libro "Uomini e città della Resistenza", nel quale egli rievoca cento figure eroiche e ripercorre cento luoghi di combattimento e di sacrificio, anche se scritti in prosa, sono un autentico poema. La famosa lapide dettata per l'immaginario monumento a Kesselring ("Lo avrai - camerata Kesselring - il monumento che pretendi da noi Italiani, ma con che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi...") è poesia altissima, come quando rievoca le torture e lo strazio degli uccisi, quello dei borghi italiani incendiati:
"non coi sassi affumicatidei borghi inermi straziati dal tuo sterminionon colla terra dei cimiteridove i nostri compagni giovinettiriposano in serenitànon colla neve inviolata delle montagneche per due inverni ti sfidarononon colla primavera di queste valliche ti vide fuggire
ma soltanto col silenzio dei torturatipiù duro d'ogni macignosoltanto con la roccia di questo pattogiurato tra uomini liberiche volontari si adunaronoper dignità non per odiodecisi a riscattarela vergogna e il terrore del mondo..."
La lapide del cosiddetto monumento, con l'epigrafe dettata di Calamandrei, fu inaugurata a Cuneo il 21 dicembre 1952 dallo stesso Calamandrei, nel Palazzo comunale, in memoria del ricordo delle stragi naziste in quella provincia, dall'eccidio di Boves in poi. Il discorso tenuto da Calamandrei in quella circostanza, che ricorda gli orrori della guerra, ma esprime fede in una Europa federata e nella solidarietà internazionale, è pubblicato nel volume "Uomini e città della Resistenza" poc'anzi menzionato.Infine Calamandrei cercò di trasferire nella Costituzione - ed in parte vi riuscì - alcuni dei principi ispiratori del movimento di "Giustizia e libertà", come stanno a dimostrare - e certamente se ne parlerà in questo Convegno - i suoi contributi ai lavori dell'Assemblea costituente sull'introduzione nella Carta, e sulla stessa formulazione, di fondamentali diritti di libertà e dei diritti sociali: anche se di quest'ultimo tema, come anch'io avrò occasione di rilevare, egli ebbe, nella sua autonomia di pensiero, una visione estremamente realistica.
Non mi sarà facile, cari presidenti e cari amici, introdurre il dibattito su questi ed altri contributi di Piero Calamandrei alla Costituzione, dato anche che su questo tema - essendo stato Calamandrei tutt'altro che dimenticato nei quaranta anni che ci separano dalla sua morte - esistono numerosi scritti molto importanti, ai quali con maggior tempo di quello che ha potuto essermi concesso - ci si sarebbe potuti rifare.Cercherò tuttavia di tracciare per somme linee alcune ricostruzioni.
Nei rapporti tra Piero - e la Costituzione non è difficile distinguere quattro fasi:- quella del preannuncio della Costituzione democratica e dell'Assemblea costituente e dell'affermazione della loro necessità (1945-1946);- quella del contributo dato alla scrittura della stessa Costituzione, svolto con assiduità di deputato del Partito d'azione all'Assemblea costituente (1946-1947 ed anche nei primi mesi del 1948) e accompagnato da intensità di scritti e di discorsi, pronunciati fuori dell'aula di Montecitorio;- quella, che occupa circa sette anni dell'intensa sua vita, compreso il quinquennio di ulteriore attività parlamentare (1948-1955). Calamandrei fu infatti eletto il 18 aprile 1948 nella lista nazionale di "Unità socialista" (dove occupava il quarto posto dopo Ivan Matteo Lombardo, Tremelloni e Simonini: Saragat non aveva voluto esservi collocato preferendo essere capolista in tre collegi, in ognuno dei quali venne eletto al primo posto). Un anno dei cinque (il 1950) Calamandrei lo trascorse come deputato del Partito socialista unitario, un partito vissuto poco più di un anno, ma il cui gruppo alla Camera aveva ben 14 deputati; mentre i tre anni residui li trascorse in gran parte come membro del Partito socialista democratico, ma in dissidenza rispetto alla maggioranza: basterebbe ricordare la dissidenza sua e d'altri deputati famosi come Ugo Guido Mondolfo (e con loro di Belliardi, Bonfantini, Cavinato, Giavi, Lopardi e Zanfagnini) all'epoca della "legge maggioritaria" del marzo 1953. Nelle ultime settimane di quella prima legislatura era già esponente del movimento di "Unità popolare", nato appunto in opposizione all'approvazione di quella legge e per farla fallire nei risultati, come fallì. Cessata la prima legislatura restò in "Unità popolare" e continuò ad operare fuori del Parlamento come indipendente. Ebbene questa fase, che mi sembra possa considerarsi come conclusa nel 1955, il rapporto tra Calamandrei e la Costituzione è quello di un uomo fortemente deluso ma estremamente combattivo. Deluso, in parte, per gli stessi contenuti e per alcune formulazioni della Carta costituzionale; ma soprattutto deluso per la mancata attuazione della stessa, da lui continuamente denunciata in scritti giuridici e politici (tutto "Il Ponte", la rivista da lui fondata e diretta di quegli anni è pieno di suoi saggi critici in argomento), anche se la sua posizione non è del tutto priva di speranza;- ed infine la quarta fase, quella dell'ultimo anno di sua vita, in cui le speranze si riaccendono per l'avvenuta entrata in funzione della Corte costituzionale, da lui tanto fortemente auspicata negli anni precedenti e per l'estensione della cui competenza Calamandrei condusse una grande battaglia. Uno dei suoi ultimi articoli su "La Stampa" (6 giugno 1956), intitolato "La Costituzione si è mossa" e l'ultimo suo contributo alla "Rivista di diritto processuale" sono appunto dedicati a questo tema.
La tematica costituzionale affrontata da Calamandrei nei primi due periodi ai quali ho accennato è estremamente vasta. Parte da temi veramente di fondo, come il concetto stesso di democrazia, ma si estende a vari settori. Dominano anche, nel primo periodo, la ricostruzione del quadro storico dei mutamenti in atto, in particolare la rivendicazione di una rottura della "continuità istituzionale", che lo portò a criticare aspramente, del resto con altri uomini politici, quello che egli definì il compromesso della tregua istituzionale deciso nel giugno 1944, il decreto legislativo del marzo 1946 che confermava, salvo poche eccezioni, il potere legislativo al governo nonostante l'esistenza dell'Assemblea costituente, l'istituto stesso della "luogotenenza generale del regno" e poi l'abdicazione del re Vittorio Emanuele III in favore del figlio.Centrale, tra le numerose opere di quel primo periodo, è il libricino "Costruire la democrazia", contenente una serie di scritti minori che vanno dal dicembre 1944 al settembre 1945, e il cui sottotitolo è "Premesse alla Costituente".In esso egli non tratta soltanto i problemi più strettamente attinenti ai compiti e alla competenza della futura Assemblea costituente visti sul piano politico ed istituzionale; bensì affronta il nucleo essenziale di quella che dovrà essere una Costituzione autenticamente democratica.Dominano qui le idee centrali della libertà e della legalità. Calamandrei denuncia sia quella che è stata la soppressione della legalità propria di certe dittature rivoluzionarie o sedicenti rivoluzionarie, come quelle sovietica e nazionalsocialista, sia quella che egli ravvisa come carattere della dittatura fascista italiana, la legalità cioè adulterata o falsificata, che ha lasciato pesanti tracce sulla concezione di vita e sulla stessa coscienza dei cittadini. E pone in rilievo il legame indissolubile tra libertà e legalità. La libertà è condizione ineliminabile della legalità. Dove non v'è libertà non può esservi legalità.Nel grande quadro delle libertà, peraltro, fondamentali sono le libertà politiche, tra le quali Calamandrei preferisce includere anche le libertà civili perché "i diritti di libertà in regime democratico non devono concepirsi come il recinto di filo spinato entro cui il singolo cerca scampo contro gli assalti della comunità ostile, ma piuttosto come la porta che gli consente di uscir dal suo piccolo giardino sulla strada e di portare il suo contributo al lavoro comune: libertà, non garanzia di isolamento egoistico, ma garanzia di espansione sociale". L'individuo non deve chiudersi in se stesso e perdere il senso della solidarietà collettiva. Quest'ordine di concetti è ripreso nel delineare, sulla base dell'insegnamento di Francesco Ruffini, i rapporti inscindibili tra libertà individuale e sovranità popolare. Esse "si affermano insieme come espressioni di una stessa concezione politica, e insieme troveranno la loro sistemazione giuridica nella Costituzione, come due aspetti complementari ed inscindibili della democrazia tradotta in ordinamento positivo".Ma accanto ai diritti di libertà sono pure essenziali, in democrazia, i diritti sociali. Anzi anche questi sono, a ben vedere, diritti di libertà, iscrivendosi in una visione più ampia di quelle che già si solevano chiamare le libertà positive. "Una democrazia vitale - egli precisa - può attuarsi soltanto nella misura in cui la giustizia sociale, piuttosto che come ideale separato ed assoluto, sia concepita come premessa necessaria e come graduale arricchimento della libertà individuale". In questo richiamo egli si riferisce al socialismo liberale di Carlo Rosselli, al liberalsocialismo di Guido Calogero, alla giustizia e libertà del partito d'azione e, purtroppo, alla stessa democrazia progressiva dei comunisti italiani. Osservo che quest'ultima era all'epoca, per qualcuno, la grande illusione; ma era anche la moda del tempo. Calamandrei pagò ad essa il suo tributo, pur se si deve sottolineare la limitazione del richiamo, fatto ai soli comunisti italiani...Comunque, come risulta anche da altri scritti - ed anche dallo schieramento politico da lui poi prescelto e sopra ricordato - la sua fedeltà politica è soprattutto quella dalle idee di Carlo Rosselli: "l'esigenza di giustizia sociale - egli dirà in altra pagina di "Costruire la democrazia" - come esigenza di libertà". E ancora: "democrazia sociale è quella in cui i diritti politici e i diritti sociali sono messi sullo stesso piano: in cui, si potrebbe anche dire, un certo grado di benessere economico è riconosciuto come un diritto politico del singolo verso la comunità". Inoltre il significato dell'opera di Calamandrei in quei tempi è quella dello sforzo rivolto a tradurre gli ideali politici di giustizia e libertà in formule giuridiche: e cioè, appunto, in precetti costituzionali positivi.
Sul rapporto tra diritti di libertà e diritti sociali, Calamandrei tornerà durante l'esperienza dell'Assemblea costituente (1946-1948) e anche dopo.L'esame di questo punto nodale del suo pensiero sulla Costituzione ha suscitato l'interesse di alcuni studiosi, anche in relazione ad una contraddizione che si potrebbe in lui rilevare a proposito della collocazione da riservare ai diritti sociali nella Costituzione, e cioè in un posto diverso da quello, centrale, riservato ai diritti di libertà.Ai diritti di libertà è noto che Calamandrei dedicò vari studi, dagli "Appunti sul concetto di legalità" a "Costituente e questione sociale", alla premessa alla ristampa dei "Diritti di libertà" di Francesco Ruffini, alla "Introduzione al Commentario sistematico della Costituzione italiana", da lui diretto insieme ad Alessandro Levi, sino all'ultimo scritto sulle "Inattuazioni costituzionali" del 1955.Nel vecchio dibattito tra i diritti di libertà intesi come diritti negativi (diritti al rispetto da parte dello Stato) e diritti di libertà intesi invece come libertà positive (per cui lo Stato deve rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che si frappongono alla libera espansione morale e politica della persona umana; sarà poi questa la formula ad essere riflessa in termini di maggiore ampiezza nel comma secondo dell'art. 3 della Costituzione italiana), Calamandrei finirà per optare per questa seconda posizione. Lo Stato deve quanto meno rimuovere gli ostacoli di natura giuridica e garantire la sicurezza sociale.Ma il punto critico non è tanto qui, quanto nel collegamento tra libertà e legalità. I diritti di libertà non sono tanto autolimitazione dello Stato quanto limitazione della stessa legalità: nel senso che occorre assolutamente una Costituzione "rigida", come quella che appunto venne adottata in Italia, con una potestà superiore alla legge ordinaria e tuttavia nel quadro dello Stato, una potestà di annullamento delle leggi contrarie a quei diritti ad opera di una Corte costituzionale.Anzi ad un certo momento Calamandrei sembra aderire alla posizione dei sostenitori dei diritti di libertà come diritti supercostituzionali, nel senso che essi debbano essere collocati accanto ai principi fondamentali dell'ordinamento repubblicano, non sottoponibili nemmeno alla proceduta di revisione costituzionale.Come è noto, questa posizione (peraltro non perenta) non passò; ma questo concetto della inviolabilità riferito ad alcuni diritti fondamentali è rimasto iscritto in alcuni articoli della Costituzione, per esempio per il diritto alla libertà personale (ed anche per il domicilio e per il segreto epistolare) e per il diritto di difesa giudiziaria. Ed è noto che l'attuale Parlamento, nell'istituire l'attuale "Commissione bicamerale" per la riforma della Costituzione e nel fissarne i compiti, ha escluso, almeno per questo momento, una revisione della parte prima, dedicata ai diritti e ai doveri dei cittadini.Quanto ai diritti sociali, che rappresentano - come è avvenuto per altre costituzioni del dopoguerra (e come era avvenuto nel primo dopoguerra, ma con ben scarso successo, con la costituzione di Weimar e con la costituzione della repubblica spagnola) - la grande innovazione della struttura della Carta rispetto allo Statuto albertino, il punto di crisi starebbe non già nel riconoscere la loro suprema dignità quanto nel realismo che deve accompagnare tale riconoscimento, e ciò in relazione all'impossibilità dello Stato di provvedere a tutto, di trovare il lavoro a tutti, di assicurare a tutti un lavoro dignitoso e un'esistenza dignitosa, e così via.Fu appunto in relazione a questo problema che Calamandrei alla Costituente presentò due volte un ordine del giorno per collocare i diritti sociali in un preambolo, come un compito a cui la Repubblica fosse tenuta a provvedere, ma a cui non era possibile assegnare la stessa vincolatività positiva che doveva esser propria dei diritti di libertà. Fu indotto a ritirare il primo ordine del giorno da Togliatti, Mortati ed altri, mentre il secondo non ebbe neanche modo d'essere posto in votazione.Due motivi possono essere individuati, a mio avviso, per questa posizione, che potrebbe altrimenti sembrare singolare.Il primo motivo è da ricondursi all'abito tradizionale del giurista autentico, avvezzo a vedere nei diritti una pretesa realmente esigibile. Ed è in relazione a ciò che egli poté perfino essere accusato di volere in definitiva una Costituzione "borghese".Il secondo, collegato del resto al primo, è espresso nettamente nel suo discorso preliminare in Assemblea, del 4 marzo 1947. Il discorso è anche stato pubblicato autonomamente con il titolo "Chiarezza nella Costituzione". In esso si rintraccia una chiara distinzione tra i programmi od impegni da un lato e diritti esigibili dall'altro.Il problema di metodo, che era anche un problema di sostanza. E soprattutto di rispetto della Costituzione, quale sarebbe stata letta dopo la sua emanazione.Calamandrei non voleva che la Costituzione incorresse in quella stessa sfiducia dei cittadini, che aveva caratterizzato molte leggi in periodi antecedenti della storia italiana."Nella nostra Costituzione - egli disse - ad articoli che consacrano veri e propri diritti azionabili, coercibili, accompagnati da sanzioni, articoli che disciplinano e distribuiscono poteri e fondano organi per esercitare questi poteri, si trova frammista una quantità di disposizioni vaghe (sui rapporti etico-sociali e sui rapporti economici), le quali non sono vere e proprie norme giuridiche nel senso preciso e pratico della parola, ma sono precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi; magari manifesti elettorali, magari sermoni: che tutti sono camuffati da norme giuridiche, ma norme giuridiche non sono". E a proposito del progetto di articolo 1, che diceva, similmente all'articolo attuale, "La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro", Calamandrei osservava: "Quando dovrò spiegare ai miei studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro, che cosa potrò dire?". E via via con una serie di proposizioni analoghe, talune assai spiritose, che il tempo mi vieta qui di rileggere, esprime gli stessi concetti a proposito dei progetti di articoli dedicati ai fini prescritti "ad ogni attività economica privata o pubblica", alla tutela della salute e al promovimento dell'igiene, all'assicurazione dell'istruzione, e quant'altro. Per concludere, dopo una nobile invocazione alla necessità di ripristinare la fiducia nelle leggi, "bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli Italiani dicano, dopo aver letto ognuno dei suoi articoli: non è vero nulla".Questo era dunque Calamandrei: un giurista serio e nello stesso tempo una grande personalità ispirata ad ideali di progresso sociale, protesa verso un avvenire di giustizia e di solidarietà: sul piano nazionale come su quello internazionale. Ma l'impegno era una cosa, il riconoscimento dei diritti come di qualcosa di già consentito, un'altra.Come è noto, la Costituzione realizzò un metodo diverso da quello proposto da Calamandrei nei suoi ordini del giorno: in alcuni articoli riconobbe prima il diritto e poi aggiunse l'impegno per la sua effettiva realizzazione o protezione: esemplare l'articolo 3 nei due suoi commi. Qualche altra volta fuse il riconoscimento e promovimento, come nell'articolo 5 dove è detto che "la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali". In altri articoli è rimasto solo il "promuove". Comunque, risultò una Costituzione anticipatrice, lo strumento di una "rivoluzione giuridica e legalitaria", quale Calamandrei aveva propugnato.
La partecipazione di Piero Calamandrei alla costruzione della nuova Costituzione, in seno all'Assemblea costituente e fuori di essa con la sua grande e costante presenza di scrittore di cose politiche e giuridiche, non si limitò, di certo, a quei grandi temi dei diritti di libertà e dei diritti sociali. Egli lasciò un'impronta in molti settori dell'ordinamento costituzionale, anche se le sue proposte ben di rado finirono per essere accolte. Ed egli seppe anche fare dell'ironia in proposito, ricordando la propria appartenenza al Partito d'azione, il cui gruppo parlamentare non superava i nove deputati.Egli viene ancor oggi citato come sostenitore di una repubblica presidenziale, che di certo era la formula preferita dal partito d'azione. Per l'esattezza, non si trattò di una vera e propria battaglia, ma di fermi accenni a questa propensione. Sono da ricordare in proposito un suo intervento, in seconda sottocommissione, del 5 settembre 1946 ed un suo articolo su "Italia libera". Testualmente precisò: "Non è indispensabile che si adotti integralmente in Italia lo schema della repubblica presidenziale quale è in vigore in America; basterebbe che ad essa ci si avvicinasse in un punto, che è quello dell'innalzamento e rafforzamento dell'autorità del capo del governo, attraverso l'approvazione solenne - popolare o delle assemblee legislative almeno - del piano in cui sia fissata la politica che intende seguire". E ribadì: "Il problema fondamentale della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo; nel progetto di costituzione di questo non c'è quasi nulla". Parole di grande realismo e che sembrano quasi profetiche quando si pensa a ciò che è accaduto in Italia per cinquant'anni, con cinquantatré governi, e a quello che è uno dei tormenti delle riforme oggi in gestazione.Altra importante battaglia perduta - e sulla quale non si ha certo il tempo di soffermarsi oggi - fu quella contro la costituzionalizzazione dei Patti lateranensi del 1929. Ma in questa Calamandrei non rimase certo solo col suo partito d'azione, essendovi stato il compatto voto contrario tanto del partito socialista democratico (allora partito socialista dei lavoratori italiani) quanto del partito socialista italiano. Inoltre fu vinta la minore, ma pure importante battaglia, per la non costituzionalizzazione della indissolubilità del matrimonio.Delle autonomie regionali Calamandrei fu pure sostenitore fervido, anche se non mancò di esprimere preoccupazione di fronte ad alcune prime prove date dall'autonomia regionale siciliana.Del federalismo europeo fu sempre convinto fautore e tale rimase fino a dopo la Costituente nazionale, partecipando nel 1948 alla Costituente per la Federazione europea. Fu detto giustamente che uno dei motivi per cui Calamandrei sarà (come per la sua formazione ideale era in quei tempi quasi ovvio) uno degli avversari dell'adesione dell'Italia al Patto Atlantico (1949) era proprio quello di temerne un abbandono delle possibilità di una Federazione europea.Altri temi che attirarono la sua attenzione di costituente (ed anche nella prima legislatura) fu il sistema dei partiti come fonte di partitocrazia e di inutili contese e la patologia della corruzione parlamentare.Né, per finire, si può dimenticare l'impegno tutt'altro che marginale su quei temi della giustizia, che lo avevano appassionato sin da giovanissimo professore ed avvocato e che sempre lo appassioneranno, sino alla piuttosto sconfortata terza edizione del suo celebre "Elogio dei giudici scritto da un avvocato".Già come componente della Commissione presieduta da Ugo Forti istituita presso il Ministero della Costituente (ricordo che ministro era Pietro Nenni e capo di gabinetto Massimo Severo Giannini) e poi come deputato all'Assemblea costituente, egli prese posizione per l'indipendenza della magistratura (ma anche nel senso di un maggiore rispetto del giudicato, ciò che implicava contrarietà alle amnistie e agli indulti), per l'inamovibilità anche dei magistrati del pubblico ministero, per il cosiddetto autogoverno della magistratura, per l'importanza dei consigli giudiziari regionali come ausiliari del Consiglio superiore della Magistratura, per il divieto di appartenenza dei magistrati a partiti politici, per il dovere di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, per il giudice precostituito per legge (non gli piaceva l'antiquata formula del "giudice naturale", ma è noto che la Costituzione le adottò entrambe), per la riparazione alle vittime degli errori giudiziari, per il concorso come presupposto per l'ingresso in magistratura (ovviamente aperto anche alle donne), per i giudici onorari come giudici singoli o monocratici, e insomma per tutto un insieme di punti qualificanti in senso democratico, alcuni dei quali furono accolti e passarono nella Costituzione; così, per esempio, è sua la formula della soggezione del giudice soltanto alla legge.Non passò invece la sua proposta diretta ad introdurre l'unicità della giurisdizione, con conseguente scomparsa degli organi di giustizia amministrativa: una proposta che peraltro sentiamo oggi rinverdita nei lavori della "Bicamerale".E nemmeno fu accolta, come è noto, la sua proposta di un Procuratore generale-commissionario di giustizia, nominato dal Presidente della Repubblica e tenuto a rispondere al Parlamento sull'andamento della giustizia e sul funzionamento della Magistratura. Comunque si trattava di una formula che è ritornata qualche volta attuale perché esprimeva il bisogno di un collegamento tra giustizia e potere legislativo e in definitiva la supremazia di quest'ultimo, quanto meno come controllo della rispondenza del funzionamento della giustizia alle leggi del Parlamento votate.Il suo più intenso impegno fu tuttavia, anche nella Costituente, quello per la Corte costituzionale: a cui ad un certo momento propose (ma poi abbandonò la proposta) che vi si potesse adire anche sulla base di impugnative di cittadini-elettori o per iniziativa del suddetto Procuratore generale-commissario di giustizia.Nella Corte costituzionale - come si è detto - Calamandrei riponeva in massimo grado il funzionamento della Costituzione, ne faceva una condizione essenziale ed irrinunciabile, legata soprattutto al controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi; e sulla disciplina compì numerosi interventi, a cui ancora oggi si può andare con vivo interesse.
Il terzo periodo, il più lungo, dei rapporti tra Calamandrei e la Costituzione è quello della sua penetrante e implacabile protesta contro la sua mancata attuazione. Esso va, a un dipresso, dal 1948 al 1955 e coincide con l'avversione dell'autore per il regime democratico-cristiano, che s'era instaurato dopo il 18 aprile 1948, pure essendo uscito tale regime rafforzato da una battaglia per la libertà, alla quale lo stesso Calamandrei, dalla posizione del socialismo democratico, aveva partecipato.Nel 1966 la Nuova Italia editrice di Firenze pubblicò, nel decennale della scomparsa di Calamandrei, due splendidi volumi delle sue opere politiche e letterarie (distinte dunque del tutto dagli Scritti giuridici), curati da Norberto Bobbio.Il secondo volume, dedicato ad una scelta dei suoi discorsi e scritti politici (una scelta, perché è seguita da un indice ragionato degli scritti e discorsi, numerosissimi, non raccolti in quel volume), è intitolato "Discorsi parlamentari e politica costituzionale": titolo esatto e pertinente perché i problemi di attuazione (sperata e promossa) e soprattutto di "inattuazione" della Costituzione, amaramente e quotidianamente da lui denunciata in quegli anni, vi occupano uno spazio molto rilevante. Potrei dire, essendo l'autore soprattutto un giurista votatosi temporaneamente alla politica, che essi sono come il filo conduttore dell'intera parte della raccolta.In quel volume è riprodotto - e ne occupa esattamente 110 pagine - lo scritto a cui Bobbio appose il titolo "La Costituzione e le leggi per attuarla". Il titolo originario era, quando fu pubblicato la prima volta da Laterza nel 1955, contenuto nel volume "Dieci anni dopo (1945-1955)", "Come si fa a disfare una Costituzione".Questa ampia e completa disamina dei problemi della "Costituzione inattuata!" (titolo della premessa con cui l'Avanti! pubblicò in volumetto autonomo questo scritto esemplare) fu compiuta da Calamandrei nel febbraio 1955, durante il Governo Scelba (Segni assunse la presidenza qualche mese dopo), e quando il bilancio della separatezza tra ordinamento giuridico (tanto formale come effettivo) e Costituzione varata ormai da più di sette anni era davvero piuttosto sconsolante: non soltanto per causa della guerra fredda, che influiva soprattutto sulle materie proprie delle leggi di polizia e su altre leggi amministrative, ma piuttosto per quello spirito del rinvio, quando non addirittura di sabotaggio di alcuni principi costituzionali, tentativi che erano riconducibili, secondo Calamandrei, ad uno spirito di continuità dell'ordinamento giuridico rispetto a quello precedente la Costituzione ed anche di scarsa adesione e perfino incomprensione da parte di un cospicuo settore della classe politica, e forse di gran parte dello stesso popolo italiano per tutto ciò che era nuovo, a cominciare dai valori costituzionali.Al riguardo, con riferimento all'attività parlamentare ma non solo, Calamandrei parlò, con una di quelle sue locuzioni felici, di "ostruzionismo della maggioranza".L'elenco delle inadempienze oggetto di quell'ampia disamina è molto lungo e può dirsi che esso copra, anche nell'intento dello scritto, l'intera area delle norme costituzionali.I sette anni intercorsi, allora, quando l'autore scriveva il suo saggio, dall'entrata in vigore della Costituzione sono stati - così l'autore li definisce - nel campo costituzionale (egli dice: anche nel campo costituzionale) anni di arretramento: non sosta su posizioni raggiunte, ma reazione e restaurazione del passato; non inattività temporanea, ma smantellamento e macerazione anche di quella parte del lavoro che si credeva per sempre compiuta.Solo la facciata della Costituzione resiste, ma la si potrebbe chiamare constitutio depopulata.Calamandrei denuncia le colpe del potere legislativo (sul che è d'accordo con illustri costituzionalisti di diversa area politica, ad esempio con il Balladore Pallieri) ma soprattutto quelle dei Governi, il cui impulso sarebbe stato non solo doveroso, ma, se vi fosse stato, decisivo. Ma ravvisa una delle prime matrici di questa situazione proprio nella Costituzione stessa, della quale denuncia un ibridismo di fondo, dovuto non solo al più volte denunciato compromesso istituzionale con tutte le sue transazioni (a cominciare da quella espressa nell'articolo 7), ma proprio nel fatto che essa non ebbe il coraggio né di essere una Costituzione breve, cioè meramente organizzativa dell'apparato dello Stato, né di essere una costituzione lunga, cioè ordinativa della società (lo Stato-comunità). Ibrida perché vi fu uno sforzo verso il tipo lungo, ma non per trasformare effettivamente le strutture sociali, bensì nel limitarsi a promettere tale trasformazione a lunga scadenza.Si inserisce qui anche la famosa e lunga discussione dei giuristi (e dei giudici della Cassazione ai quali in assenza della Corte costituzionale era praticamente commesso il controllo di costituzionalità) tra norme precettive e norme direttive o programmatiche e, in seno alle prime, tra norme precettive di applicazione immediata e norme precettive ad applicazione differita.Una lunga disputa ormai fortunatamente sopita, ma che tanti, fra coloro che hanno vissuto quell'epoca, ricordano.Cerchiamo di ricordare ora, con la necessaria rapidità, i capisaldi della "Inattuazione costituzionale" denunciata da Calamandrei in quello scritto del febbraio 1955 e negli anni precedenti.Prima di tutto nelle linee generali.Per Calamandrei la Democrazia non poteva essere soltanto una repubblica in cui fossero riconosciute e garantite giuridicamente le fondamentali libertà civili e politiche e l'uguaglianza giuridica (dinanzi alla legge), ma doveva essere - varato oramai il secondo comma dell'art. 3 della Costituzione - una società in cui fossero stati rimossi "gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale del Paese".Quindi non semplice democrazia politica, ma democrazia sociale, in cui l'uguaglianza venisse realizzata anche nei fatti.Giustizia e libertà (intesa la giustizia anche come giustizia sociale e la libertà come libertà anche dalla schiavitù economica).Mancava invece, chiaramente, nonostante la Costituzione, la garanzia effettiva del lavoro e della sua remunerazione, della formula "Repubblica democratica fondata sul lavoro" rimaneva in sostanza solo la Repubblica.L'ordinamento costituzionale era rimasto frammisto in modo caotico con un ordinamento non conforme, almeno in molte e significative parti, alla Costituzione.Soprattutto bruciava, a distanza di sette anni, la mancata entrata in funzione della Corte costituzionale (anche se leggi fondamentali in proposito erano state varate nel 1948 e nel 1953), e cioè dell'organo che avrebbe dovuto vigilare sull'adempimento legislativo degli obblighi di conformità alla Costituzione.L'inadempimento si estendeva a tutti i campi, al CSM, all'ordinamento regionale, al referendum, al CNEL e quant'altro.Nessun compito era stato assolto, sicché il periodo 1° gennaio 1948-7 giugno 1953 "passerà alla storia - secondo Calamandrei - come il quinquennio dell'inadempimento costituzionale".Nella sua analisi amara l'autore prosegue con un'analisi stringente anche d'altri argomenti: il mantenimento dell'istituto prefettizio, che Luigi Einaudi aveva criticato in un suo famoso articolo del 17 luglio 1944; la mancanza di alcune auspicabili forme di tutela contro l'arbitrio amministrativo; la conservazione dei codici penale e di procedura penale e soprattutto del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931, oggetto di numerosi interventi di Calamandrei alla Camera durante la prima legislatura.Quando poi Calamandrei, sempre in quel suo scritto del 1955, passa alla disamina degli articoli della Costituzione relativi ai diritti civili e politici e alle libertà fondamentali, fa seguito alla loro rilettura con altrettanti "Non è vero", a cui segue la dimostrazione con esemplificazioni. Così ad esempio per la libertà personale a petto del fermo di polizia, per la permanenza di commissioni amministrative competenti ad adottare le misure di polizie, per taluni motivi del rimpatrio con foglio di via; così per il diritto di riunione in luogo pubblico, così per le affissioni previa licenza ex articolo 113 delle leggi di p.s. (che saranno oggetto della prima sentenza della Corte costituzionale nel 1956), per la mancata riparazione degli errori giudiziari, per i divieti tuttora sussistenti in materia di arte, scienza e cultura, per le lesioni alla imparzialità dell'amministrazione, per la permanenza di una troppo vasta giurisdizione dei tribunali militari, per il tentativo di restringere il peso del voto politico (qui Calamandrei si riferisce alla legge con premio di maggioranza del 1953 ed il discorso fatalmente scivola sul terreno più propriamente politico).La critica riprende poi, particolarmente severa, nel campo dei diritti sociali. Abbiamo ricordato più sopra che Calamandrei aveva dimostrato, in proposito, molto realismo, e li avrebbe voluti solo in un preambolo della Costituzione, come solenne impegno. Ma una volta che erano stati consacrati nella Costituzione alla stessa stregua d'altri diritti occorreva farvi ormai fronte senza indugi. Di qui il ritorno sul tema della loro mancanza di effettività, sul carattere "platonico" delle affermazioni del diritto al lavoro e alla retribuzione sufficiente e dignitosa, del diritto alla scuola e ad altre forme, che egli non vedeva neanche avviate, di trasformazione sociale."I diritti sociali - conclude - rimangono per ora una remota promessa".Il critico cerca infine di indagare le cause di tanto divario e le individua:· nella lentezza funzionale del Parlamento, nonostante il molto lavoro svolto;· nella necessità del tempo sacrificato dal Parlamento stesso alla funzione di controllo politico;· nelle colpe del Governo, anzi del suo dolo diretto ad una sistematica elusione costituzionale;· nei problemi di Governo che diventano problemi di partito;· nei legami internazionali dell'Italia;· nelle inclinazioni della Chiesa cattolica, e quant'altro.Il discorso diventa ancora una volta politico, ma viene condotto con gli strumenti del giurista.Lo scritto contiene inoltre passaggi importanti nel rapporto con la valutazione negativa della Resistenza, che in quegli anni si faceva strada, anche attraverso celebri processi.Calamandrei scrive:"Disfattismo costituzionale e processo alla Resistenza sono due facce dello stesso fenomeno.La Costituzione infatti non è altro che lo spirito della Resistenza tradotto in formule giuridiche. Il programma legalitario di rinnovamento democratico al quale si sono impegnati tutti gli uomini liberi che durante la lotta antifascista si trovarono a combattere contro l'oppressione straniera ed interna". E conclude testualmente: "La Costituzione italiana potrà riprendere la sua strada verso una democrazia sempre più piena e diventare una realtà politica, se le nuove generazioni sentiranno il dovere di andare in pellegrinaggio con loro pensiero riconoscente in tutti i luoghi di lotta e di dolore dove i fratelli sono caduti per restituire a tutti i cittadini italiani dignità e libertà. Nelle montagne della guerra partigiana, nelle carceri dove furono torturati, nei campi di concentramento dove furono impiccati, nei deserti o nelle steppe dove caddero combattendo, ovunque un italiano ha sofferto e versato il suo sangue per colpa del fascismo, ivi è nata la nostra Costituzione. Se essa può apparire alla decrepita classe politica che lotta vanamente per salvare i suoi privilegi come una inutile carta che si può impunemente stracciare, essa può diventare per le nuove generazioni, che saranno il ceto dirigente di domani, il testamento spirituale di centomila morti, che indicano ai vivi i doveri dell'avvenire".A questo punto bisogna inserire una osservazione di carattere generale. Il motivo critico, e perfino lo sconforto, non erano nuovi in Calamandrei, quasi che si fossero formati soltanto dopo l'entrata in vigore della Costituzione e il palese contrasto d'alcuni suoi principi con l'ordinamento previgente, che per tanta parte rimaneva immutato. Il motivo è rintracciabile infatti già in alcuni suoi scritti e discorsi all'epoca stessa in cui redigeva il progetto di Costituzione come membro della Commissione dei settantacinque o discuteva quel progetto nell'Aula.Anzi si era manifestato in modo icastico a un anno dalla Liberazione.È infatti del 1946 il suo famoso scritto su "Il Ponte", intitolato "Desistenza". Un sostantivo insolito, che improvvisamente campeggia su quella pagina.Esso vuole esprimere sconforto e ribellione per quanto sta accadendo in Italia a poco più di un anno dal 25 aprile, un atteggiamento di rinuncia, di abbandono, di dimenticanza, che è più profondo ed oscuro delle crisi della Resistenza, della quale già si parlava in quell'epoca, e a cui anzi fu dedicato un intero numero de "Il Ponte" nel 1947, con una serie di scritti di autori famosi, da Salvemini, a Jemolo, a Peretti Griva, a Vinciguerra.Un nuovo disfacimento morale, attribuito ai cosiddetti benpensanti. Non si trattava tanto dei torturatori, razziatori, collaborazionisti tornati in libertà o del fallimento dell'epurazione amministrativa, e simili. Si trattava del dimostrarsi quasi infastiditi a sentir parlare della guerra e dei suoi orrori, del nazismo, dei comitati di liberazione nazionale, delle critiche verso la nuova pace con le sue ingiustizie; si trattava della ripresa, al di là della fine della simbologia fascista, di un costume sotterraneo di accomodamento, della ritenuta inutilità di discutere il come e perché era avvenuto ciò che era avvenuto, del decadere di una coscienza civile.L'idea di una restaurazione clandestina compare già in quell'articolo. Eppure ciò non gli aveva impedito di lavorare tanto attivamente, nella Costituente e fuori, per la nuova Costituzione del Paese, di fondare e continuare a dirigere ed alimentare "Il Ponte", d'essere alla testa del Consiglio Nazionale Forense per dieci anni, fino alla morte, di contribuire alla fondazione dell'Associazione fra gli studiosi del processo civile, di continuare con fascino indiscutibile nell'insegnamento universitario e nella promozione di una riforma degli studi, nel costituire per ogni dove ed alimentare proprio quella coscienza civile minacciata e compromessa dalla desistenza.Soprattutto non gli impedì, per stare al nostro tema odierno, di contribuire con una incessante serie di battaglie, durante la stessa prima legislatura repubblicana, al superamento degli ostacoli duramente denunciati. Basterebbe pensare al modo con cui in quei cinque anni si riuscì ad arrivare all'effettiva istituzione della Corte costituzionale. Fu Calamandrei a guidare quella lotta, fatta, qualche volta, anche di grottesche schermaglie: pensate che un celebre parlamentare democratico-cristiano, professore di diritto costituzionale, aveva una volta proposto che i membri di nomina parlamentare dovessero appartenere tutti alla maggioranza. Calamandrei lamenta la durata di quel dibattito sulla Corte, ma bisogna riconoscere che arrivò al risultato.Se poi egli fosse vissuto più a lungo - certo, in relazione a taluni adempimenti, molto più a lungo - egli avrebbe visto realizzate molte delle istituzioni e molte delle riforme rispettose della Costituzione, delle quali egli ancora nel 1955 poteva legittimamente lamentare la mancanza.Pochi anni dopo la Corte costituzionale, entrava in funzione, con le leggi del 1958, il Consiglio superiore della magistratura. Il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza subiva i primi colpi da parte della Corte costituzionale (in materia di affissione di stampati, di ammonizione, di confino, ed altro) e alla fine del 1956 il sistema veniva modificato quanto alla competenza per le misure di polizia, che diventavano misure di prevenzione e passavano alla giurisdizione. La libertà di stampa veniva maggiormente tutelata, al segno da far nascere preoccupazioni in senso opposto, per il rispetto dovuto alla integrità morale e alla dignità dei singoli. I civili in congedo dal servizio militare passavano sotto la giurisdizione penale ordinaria, sì che più non si riprodusse il clamore destato dal processo contro Renzi ed Aristarco per "L'armata s'agapò". Al codice di procedura penale del 1930 venivano portate progressivamente una serie di modifiche (le più importanti ancora nel giugno 1955, quando Calamandrei viveva ed operava) sino a quando venne messa in cantiere, all'inizio degli anni Sessanta, una legge-delega per un nuovo codice, che vedrà la luce dopo oltre trent'anni di lavori parlamentari. Le garanzie dei singoli rispetto alla pubblica amministrazione si vennero facendo più intense, capillari e penetranti, pur nella sopravvivenza del Consiglio di Stato come giudice d'appello rispetto ai tribunali regionali amministrativi, istituiti nel 1971. Nel frattempo infatti si era disciplinato l'istituto regionale ed erano state varate (1970) le regioni a statuto ordinario. Nello stesso anno era stata varata la normativa per il referendum popolare abrogativo delle leggi previsto dall'art. 75 della Costituzione. La parità dei sessi all'interno della famiglia, nel lavoro oltre che nel voto, in carriere come quella della magistratura ed altre, veniva ad essere assicurata, attraverso gli anni in modo crescente. Nel 1975 interveniva la riforma del diritto di famiglia. E gli stessi diritti sociali venivano ad essere meglio garantiti, sia pure in collegamento con istanze non di rado parziali o soddisfatte in modo clientelare. Gli articoli 36 e 38 della Costituzione conoscevano affermazioni progressive, sino a doversi oggi veder posto in discussione, anche se in alcuni aspetti, lo stesso "Stato sociale" che è considerata conquista della "prima Repubblica".Non vi è dubbio, checché si debba concludere, che l'attuazione della Costituzione difficilmente poteva essere fatta in un solo momento e che essa non poteva che essere legata a momenti di trasformazione politica. Tuttavia la protesta di Calamandrei negli anni in cui veniva formulata aveva molti, moltissimi contenuti di validità e di verità.
È venuto il momento di tirar le vele dopo una introduzione forse troppo lunga e di dire dell'ultimo periodo dei rapporti tra Calamandrei e la Costituzione.Fu un periodo breve - durò poco più di un anno (1955-1956) - ma particolarmente felice. Non solo si riaccesero le sue speranze e divenne di intensità senza pari la sua attività, ma questa attività fu coronata da grandi successi. Il più grande di questi successi è legato proprio alla Corte costituzionale: non solamente alla sua entrata in funzione, ma all'affermazione della sua giurisdizione sulle leggi anteriori alla Costituzione, cioè sulle leggi del periodo fascista e prefascista, e non solo su quelle successive alla Costituzione.Oggi ad enunciare queste cose si potrebbe rischiare di non essere capiti. Ed invece la posta era grandissima e grande il pericolo perché v'era un forte partito di sostenitori della tesi secondo cui il sindacato di costituzionalità sulle leggi ordinarie e sugli atti aventi forza di legge dovesse essere riconosciuto alla Corte solamente per le disposizioni emanate dopo il 1° gennaio 1948. Tutto il resto non avrebbe potuto che esser materia di abrogazione da parte del potere legislativo e Dio sa quando sarebbero state abrogate e sostituite. E questo partito trovava il suo nucleo forte ed autorevole nientemeno che nella Corte di Cassazione.Orbene Calamandrei, in vista dell'inizio dell'attività della Corte costituzionale, che sicuramente si sarebbe dovuta occupare proprio di ordinanze che avevano sollevato questioni di legittimità in relazione a leggi del periodo fascista, si dette ad una campagna che condusse per tutta Italia, con discorsi diretti ad illuminare gli uomini di legge, avvocati e magistrati, su questi problemi. Questa campagna culminò - ben lo ricordo perché ero tra gli ascoltatori - con un discorso tenuto nell'aula magna del piano terreno del vecchio palazzo di giustizia in Roma, al quale egli tra gli altri aveva invitato proprio i magistrati delle sezioni civili e penali della Corte di Cassazione. Quasi tutti, primo presidente in testa, erano ad ascoltare il loro contraddittore ed interlocutore: il grande maestro del diritto processuale, che quasi quarant'anni prima aveva prodotto un'opera fondamentale su "La Cassazione civile", che aveva scritto l'"Elogio dei giudici", che era professore di diritto e avvocato tra i primissimi d'Italia e per bravura e per generale estimazione, che da dieci anni era il presidente del Consiglio nazionale forense. Un'autorità quasi senza pari, posta al servizio d'una nobile causa. Fu un momento straordinario. Ma l'ultima battaglia fu condotta proprio dinanzi alla Corte costituzionale, nel corso della prima sua memorabile udienza, il 23 aprile 1956, presidente Enrico De Nicola, relatore della causa Gaetano Azzariti, che negli anni successivi sarebbe succeduto a De Nicola nella presidenza della Corte. Io facevo parte di quella fortunata schiera di avvocati che discusse la causa davanti alla Corte di quel giorno. Sono l'unico rimasto in vita, con Massimo Severo Giannini. Calamandrei era il nostro indiscusso capofila. Fu grande: sobrio e come sempre efficace. Lo accompagnai alla stazione Termini, al solito ultimo treno per Firenze. Mi sembra di ricordare che già avemmo la felice notizia della vittoria sin dal giorno dopo. Dopo soli cinque mesi dalla conclusione di quest'ultima grande battaglia, inopinatamente Calamandrei venne a morte, a seguito di un intervento operatorio di non grande momento neanche per quell'epoca, dal quale - così egli pensava e scriveva al figlio Franco - si sarebbe rimesso dopo una breve sosta in ospedale. Invece il 30 settembre 1956 eravamo quasi tutti a Firenze, ad accompagnarlo all'estrema dimora di Trespiano.
Questi dunque i quattro tempi del rapporto tra Calamandrei e la nostra Costituzione: il tempo del grande amore per quell'idea e quel mezzo di redenzione; il tempo dell'amore con riserva e con prudenza; il tempo della delusione; il tempo della soddisfazione e della consolazione, che fu fortunatamente l'ultimo di un impegno estremamente intenso.Ma lasciatemi ricordare, a conclusione, che a quell'impegno, pure intenso, si inserì in una attività così molteplice da apparire ancor oggi, con i metri dell'oggi, prodigiosa. In quegli stessi anni egli proseguì infaticabile nel suo insegnamento universitario (allora per i parlamentari il collocamento in aspettativa non era obbligatorio), nella sua produzione giuridica, nella sua attività forense, in materia civile e qualche volta in celebri processi pensali (come quello per Ferruccio Parri, parte civile, quello in difesa di Danilo Dolci ed altri) in viaggi di indagine e di studio e di conferenze (così in Inghilterra, in Messico ed in Cina, ancora nell'estate 1955), nella direzione della rivista "Il Ponte", veramente eccezionale per la ricchezza degli studi organicamente dedicati a realtà straniere ed italiane, nell'occuparsi in mille modi di problemi umani e di giustizia.Una figura straordinaria e complessa quella che ancora oggi avete voluto ricordare, a buon diritto, amici della FIAP: una figura di giurista e di patrono di nobili cause, di artista e di poeta, di letterato e di uomo politico, del quale ben si comprende che abbia continuato a suscitare tanta attenzione nel mondo della cultura non solo giuridica e costituzionalistica: con più intenso rimpianto per coloro che gli sono stati vicini, con ammirazione e sempre vivo interesse da parte dei più giovani, che quella fortuna non hanno avuta.

"Nessuno è solo" ,Piero Calamandrei ricorda la Costituzione agli studenti


"Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra; metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica; rendersi conto (questa è una delle gioie della vita), rendersi conto che nessuno di noi nel mondo non è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell'Italia e del mondo.Ora io ho poco altro da dirvi. In questa Costituzione c'è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane... E quando io leggo nell'art. 2: "l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale"; o quando leggo nell'art. 11: "L'Italia ripudia le guerre come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli", la patria italiana in mezzo alle altre patrie... ma questo è Mazzini! questa è la voce di Mazzini!O quando io leggo nell'art. 8:"Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge", ma questo è Cavour! O quando io leggo nell'art. 5: "La Repubblica una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali", ma questo è Cattaneo! O quando nell'art. 52 io leggo a proposito delle forze armate: "l'ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica", esercito di popoli, ma questo è Garibaldi! E quando leggo nell'art. 27: "Non è ammessa la pena di morte", ma questo è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani... Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti! Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti.Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione."

Dal discorso di Piero Calamandrei agli studenti milanesi (1955)

domenica 30 dicembre 2007

27 dicembre 1947 ..un anniversario che pochi ricordano ..



“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
(Art. 3 comma 2° della Costituzione della Repubblica Italiana)


Il 27 dicembre 1947 alle 17 fu firmata la Costituzione italiana. 60 anni fa . Non ne ha parlato nessuno .
Nessuno ha ricordato nè ha fatto ricordare l'importanza di questa ricorrenza .
I media italiani parlavano d'altro. Si interessano ad altre cose ed a altre ricorrenze (magari fittizie ).
E se cerimonie ci sono state esse sono state ben al di sotto degli standard che questa ricorrenza avrebbe meritato,che poi tutti i paesi civili riservano per l'anniversario della firma della loro Carta fondamentale.
Perchè ?
Perchè forse la Costituzione non interessa più a nessuno .
Perchè forse la Costituzione è una "regola" fondamentale e viviamo in una società ,fanalino di coda anche d'Europa e già forse avanguardia del terzo mondo dove le regole stanno molto strette e si fatica a capirle e a applicarle figuriamoci a ricordarle.
Perchè forse la Costituzione ,si dice, è vecchia ed è superabile e fervono le iniziative di riforma : prima seconda ,magari terza Repubblica senza regole o con regole più elastiche .. con riforme confuse e prive di valori appunto perchè distanti da quel comune sentire civile che fu alla base della società italiana e della Costituzione italiana .
Riforme confuse anche perchè mancano idee chiare ,mancano idee espresse con coraggio e trasparenza come ai tempi dell'Assemblea costituente .
La Costituzione è scomoda.
Manca lo "spirito" costituente che è morto a vantaggio di una visione aridamente partitocratica e anche un pò elitaria ed aristocratica che è un pò dappertutto.
La visione del successo a tutti i costi e del potere che premia ,costi quel che costi.
Manca lo spirito giusto e si disperde il senso della giustizia -parola strana ed ambigua ,per molti forse ormai senza alcun contenuto concreto- il lavoro su cui la Repubblica si fonda oggi ,il lavoro come espressione dell'uomo e della sua dignità personale e sociale oggi non lo rispetta nè lo ricorda più nessuno e conta solo il potere ed il successo ,e le strategie per raggiungerli.
La diversità delle culture ,su cui proprio la Costituzione è nata ,è vista quasi come una complicazione ,in un quadro politico da "semplificare" e da ridurre in una omologazione culturale melliflua e fatta di glassa mediatica (a destra come a sinistra) anzichè di valori comuni e fondamentali .
La Costituzione rappresenta e continua a rappresentare il nostro sogno di Paese libero e il nostro modo di essere liberi con dignità , coniuga i diritti e la solidarietà e rende manifesta la nostra storia e la dignità di viverla nell'umiltà delle scelte quotidiane .
La Costituzione vive in chi la rispetta e la ricorda e perciò solo negli spiriti liberi,per gli altri è solo un orpello superato ,appunto da dimenticare,o da nominare invano .

lunedì 24 dicembre 2007

Giustizia : carbone nel sacco di Natale




Troppi tribunali, agenti usati male Giustizia, ecco come evitare sprechi" http://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/politica/giustizia-sprechi/giustizia-sprechi/

da Repubblica ,un articolo di Eugenio Occorsio :

ROMA -
Gli uffici giudiziari sono troppi, disposti irrazionalmente, con una produttività del tutto insufficiente, e per di più dialogano con mezzi arcaici e troppo costosi.
Le guardie carcerarie sono troppe in rapporto al numero dei detenuti.
Le procedure di recupero dei soldi delle condanne non funzionano, e si spende più di quanto si recupera.
Le intercettazioni, giuste o sbagliate che siano, costano troppo.
Le procedure di esecuzione, i depositi giudiziari, il regime dei beni confiscati, tutto è gestito in modo antiquato e farraginoso, e si presta a sostanziali recuperi di efficienza.
E' impietosa la fotografia della Giustizia italiana, anche dal punto di vista amministrativo.
Gli uffici di via XX settembre sono attenti a distinguere le loro competenze e circoscriverle all'ambito economico.
E' implicita in ogni loro riflessione la consapevolezza che toccano punti sui quali la revisione dovrà essere politica. Però, per il loro compito, sono puntuali. Prendiamo le intercettazioni: "E' urgente procedere alla forfettizzazione dei compensi agli operatori di telecomunicazioni, semplificando la contabilizzazione e il controllo", scrive il rapporto, che arriva a dire che si potrebbe arrivare ad imporre "la gratuità delle prestazioni, come già avviene in realtà statali simili alle nostre".
Altro intervento urgente, quello sulle carceri. Gli agenti di custodia sono troppi rispetto alle esigenze, e in buona parte dispersi in adempimenti amministrativi. I detenuti in Italia, segnala lo studio, erano quanti in Francia prima dell'indulto, poi sono diventati nettamente meno (sono scesi da 60 a 45mila). Eppure gli agenti restano quasi 42mila, contro i 30mila della Francia, paese che ci dà lezioni anche per le misure alternative alla detenzione, che interessano ben 150mila condannati. Dal punto di vista sanitario, lo studio si chiede perché a trent'anni dalla legge Basaglia siano ancora aperti molti manicomi giudiziari (Aversa, Napoli, Pozzo di Gotto, Reggio Emilia e altri) e non si siano trasferite le competenze alle Asl.
C'è poi la madre di tutte le questioni, i processi.
Intanto, vanno ridotti: va introdotta, suggerisce la commissione, la norma che prevede la cancellazione dai ruoli se l'udienza va deserta anche una sola volta.
Recuperare le somme delle condanne è talmente complicato (il 3% del totale inflitto) che in molti casi, come gli extracomunitari di cui non si conosce neanche l'indirizzo, è meglio lasciar perdere, almeno per piccole somme (2-300 euro, suggerisce la commissione).
E poi la lentezza dei processi è tale da aggiungere al danno sociale la beffa degli oneri connessi con l'equa riparazione prevista dalla legge Pinto del 2001, che dà diritto a chi è danneggiato da un processo che supera il "termine ragionevole" di rivalersi sullo Stato: ben 20.390 procedimenti aggiuntivi che sono costati 41,5 milioni di euro negli ultimi 5 anni, di cui 17,9 nel 2006. Il problema cresce esponenzialmente: visto che quasi tutti i 50mila ricorsi civili superano i cinque anni di pendenza, calcola il rapporto, ogni anno vi sono 100mila soggetti con diritto all'indennizzo (hanno diritto entrambe le parti): ipotizzando un risarcimento medio di 4000 euro e un rimborso spese di 1000, si può arrivare a 500 milioni di euro annui.
Ancora: il 72% dei tribunali è sottodimensionato, ma avere un tribunale, tutti edifici di proprietà comunale per i quali lo Stato paga nel 2007 in affitti e rimborsi 227,2 milioni di euro, è considerata "un'occasione di prestigio localistico".
Se si aggiunge l'urgenza di rivedere la figura dei giudici di pace, che percepiscono la discreta somma di 72mila euro l'anno ma sono utilizzati in modo discontinuo e disorganizzato, si capisce la "necessità di rivedere la geografia degli uffici giudiziari" con l'accorpamento dei tribunali minori. Il rapporto arriva a proporre "eventuali modalità alternative di erogazione del servizio di giustizia su base locale in assenza di una sede di tribunale". Sopravvivono poi nell'amministrazione giudiziaria mezzi di comunicazione antichi.
Un'elementare riforma sarebbe l'uso generalizzato dell'e-mail: per rispondere all'esigenza di sicurezza, si può installare la posta elettronica certificata di recente introduzione.

venerdì 21 dicembre 2007



La felicità e la pace del cuore nascono dalla coscienza di fare ciò che riteniamo giusto e doveroso , non dal fare ciò che gli altri dicono e fanno...
(Mahatma Gandhi)


Un augurio a tutti voi

Gli amici di Controcorrente

giovedì 20 dicembre 2007

I lavori del Convegno su magistrati e separazione dei poteri (in audio)


Potrete ascoltare i lavori del convegno al link :


http://www.agenziaradicale.com/index.php?option=com_content&task=view&id=2428&Itemid=51

Approvata la moratoria universale della pena di morte





"..In questo momento della mia lunga esistenza, volgendomi verso quella che fu una battaglia appassionata, misuro il cammino percorso verso l'abolizione universale. Ora, finché fucileranno, finché avveleneranno, finché decapiteranno, finché lapideranno, finché impiccheranno, finché supplizieranno, non ci sarà pace per quanti credono che la vita è il valore supremo per tutta l'umanità e che una giustizia che uccide non è giustizia. Verrà un giorno in cui sulla faccia della terra non ci saranno più condannati a morte in nome della giustizia. Quel giorno, io non lo vedrò. Ma ho una convinzione assoluta: più in fretta di quanto pensino gli scettici, i nostalgici o i fautori dei supplizi, la pena di morte è destinata a scomparire dal mondo."
Robert Badinter
Avvocato ,già Presidente del Conseil Constitutionnel Francese

http://www.radioradicale.it/scheda/242843/contro-la-pena-di-morte

L'approvazione da parte dell'Assemblea generale dell'ONU della moratoria universale della pena di morte è un fatto che "ci" riguarda come magistrati e come giuristi.


Per la prima volta da almeno tre secoli la questione del rispetto della vita e della dignità della persona si è fatta centrale e si è trasformata in una idea transnazionale e nella affermazione di un principio di civiltà giuridica globale.


Non appena qualche anno prima abbiamo assistito ad esecuzioni pubbliche anche mediatiche nell' Iraq liberato ,di alto valore simbolico e politico forse ,ma di bassissimo profilo morale e civile.


Gli stati si liberano solo con il riconoscimento del valore centrale della persona umana ,altrimenti restano schiavi delle passioni e delle emozioni e della violenza delle masse di cui lo Stato moderno non può mai essere espressione ,e la democrazia ,qualsiasi democrazia ,si difende e sopravvive con la civiltà del diritto.

domenica 16 dicembre 2007

Magistrati e funzioni amministrative, un convegno il 19 dicembre a Roma


Un piccolo esercito di magistrati fuori ruolo, anziché esercitare le funzioni giurisdizionali, è distaccato in incarichi di diretta o indiretta collaborazione con i Ministri. Sottosegretari, Capi di Gabinetto, Capi, Sottocapi e Funzionari di interi Uffici Legislativi, Portavoce di Ministri, di fatto scelti dalle correnti della magistratura associata, ogni giorno, da decenni, esercitano un pressoché assoluto monopolio “tecnico” sulle scelte “politiche” compiute dal Governo ed in particolar modo dal Ministro della Giustizia.Occorre andare alla radice dell’irrisolto problema Giustizia, comprenderne le ragioni profonde, verificare le responsabilità e capire se in questo sistema si annidano le cause delle mancate riforme capaci di risolvere la “Questione Giustizia”, la giustizia come problema e questione sociale.Potere Esecutivo e Potere Giudiziario, una commistione tra politica e magistratura, in particolar modo nel Ministero della Giustizia, che viene da lontano, di cui si parla e si conosce poco e sulla quale occorre far luce...
Radicali Italiani eIl Comitato Radicale per la Giustizia “Piero Calamandrei”organizzano il
Convegno“Magistrati, Ministeri e Separazione dei Poteri: una proposta di legge per tornare alla Costituzione”
Camera dei Deputati - Sala del Refettorio - Palazzo San MacutoMercoledì 19 dicembre 2007- Ore 09,30
Interventi programmati
Prof. Giuseppe Di Federico
(Ordinamento Giudiziario - Università di Bologna, già membro del CSM)
Prof. Alfonso Celotto
(Ordinario di Diritto Costituzionale - Università Roma Tre)
Prof. Antonio D’Andrea
(Ordinario di Diritto Costituzionale – Università degli Studi di Brescia)
Prof. Giampiero di Plinio
(Prof. ordinario di Istituzioni di diritto pubblico Dipartimento Scienze giuridiche - Università Chieti/Pescara
Prof. Tommaso Edoardo Frosini
(Ordinario Diritto Pubblico Comparato – Università di Napoli “Suor Orsola Beninca”)
Prof. Mario Patrono
(Ordinario Diritto Pubblico – Università La Sapienza di Roma)
Prof. Avv. Nicolò Zanon
(Ordinario di Diritto Costituzionale – Università degli Studi di Milano)
Avv. Renato Borzone
(Segretario Nazionale Unione Camere Penali Italiane)
Avv. Gian Domenico Caiazza
(Presidente Camera Penale di Roma)
Dr. Bruno Tinti
(Procuratore Aggiunto presso la Procura di Torino)
Dr. Giuseppe Corasaniti
(Sostituto Procuratore presso la Procura di Roma)
Dr. Giuseppe Bianco
(Sostituto Procuratore presso la Procura di Firenze)
Sen. Avv. Roberto Manzione
(Ulivo, Vicepresidente Commissione Giustizia del Senato)
On. Avv. Gaetano Pecorella
(Responsabile Giustizia di Forza Italia, Commissione Giustizia della Camera )
Sen. Avv. Cesare Salvi
(Presidente Commissione Giustizia del Senato)

Interviene
Rita Bernardini
(Segretaria Nazionale Radicali Italiani)
Conclude
Marco Pannella
Coordina i lavori
Avv. Giuseppe Rossodivita
(Giunta Esecutiva Nazionale Radicali ItalianiResponsabile Comitato Radicale per la Giustizia “Piero Calamandrei”)

giovedì 13 dicembre 2007

Morire di lavoro ...serve una magistratura specializzata


Solo una magistratura specializzata e dotata di mezzi e strutture adeguati può contribuire a prevenire le stragi sul lavoro. Lo dicono i magistrati che si occupano da anni di sicurezza sul lavoro ,stanchi magari di essere considerati come cassandre e qualche volta di svolgere un ruolo infelice ,fatto di decreti penali di condanna e scarsamente considerato nell'ambito della magistratura ..perchè si sa parafrasando Mao Tse Tung ci sono processi che pesano come piume (processetti ,appunto quelli contravvenzionali) e processi che pesano come montagne (quelli che portano in prima pagina il caso ) . Chi ha fortemente sostenuto la strada della magistratura specializzata ,almeno di quella inquirente ,a cominciare da Giovanni Falcone (che morì e fu avversato da vivo -è inutile nasconderlo- proprio perchè sosteneva fortemente una moderna idea di una magistratura "efficace" perchè ben coordinata e capace di interfacciarsi sul territorio ) è sempre isolato e contraddetto in nome di una cultura burocratica e tabellare per cui tutti i processi sono statistiche e il peso delle assegnazioni deve essere "eguale per tutti" i magistrati. Ma qui sta il punto ..solo una magistratura in grado di capire i fenomeni e di prospettarli efficacemente è in grado di svolgere adeguatamente i suoi compiti costituzionali ,ed occorre ripensare proprio il modulo organizzativo gerarchico tradizionale secondo la prospettiva saggiamente intuita da Falcone per la DNA che è resta il più efficace modello organizzativo ,non a caso ispirato al modello statunitense.

domenica 9 dicembre 2007

Ecco cosa succede a Napoli ... esempio illuminante di "nuova edilizia giudiziaria"




da Repubblica:


Ecco la bellissima protesta degli avvocati napoletani.. a Roma potremmo organizzare anche un piccolo incontro di calcetto ?



Stanze allagate e pochi parcheggi.

La protesta dei magistrati per i disagi quotidiani

Tribunale civile irraggiungibile, giustizia riunita in un´unica cittadella, ma con i problemi di sempre che restano immutati. I magistrati non ci stanno. Il grido d´allarme arriva dal gruppo napoletano di Mi, Magistratura indipendente, che in un documento focalizzano l´attenzione «senza polemiche, ma per favorire il dibattito». «La giustizia a Napoli - recita il documento - ancora stenta a uscire da una situazione di emergenza per il settore civile dopo il trasferimento nella Torre A».

Un trasferimento, dice Mi che, senza i dovuti interventi del Comune sui trasporti e i parcheggi e con la "verticalizzazione" degli uffici giudiziari civili da parte del ministero della Giustizia, ha aggravato la crisi del settore creando attriti anche con gli avvocati. «L´unica soluzione sembra quella di spalmare gli uffici ai primi piani delle tre torri», sostengono i giudici, e trovano poco utile differire l´orario di inizio delle udienze alle 11: non smaltisce le file agli ascensori e mette scompiglio nel lavoro dei magistrati. «Il Tribunale di Napoli - prosegue il documento - è uno dei più grandi uffici giudiziari in Italia (e in Europa), ma è privo dal 2001 di progetti tabellari approvati per una adeguata distribuzione degli organici. Quanto al profilo delle risorse, restano ancora impellenti problemi fondamentali attinenti alla mancanza dei fondamentali prodotti di cancelleria (carta, cartucce per stampanti). Così come sussistono carenze nella manutenzione delle strutture e nella gestione dei servizi (blocco degli ascensori, allagamenti di stanze, difettoso funzionamento del riscaldamento)».

(03 dicembre 2007)


Un solo commento : E questo è il film che si vorrebbe vedere anche a Roma ??

sabato 8 dicembre 2007

NO al trasferimento degli uffici giudiziari di Roma


Nel corso dell'assemblea dell'ANM locale del 3-12-2007 è stato sottoposto un progetto " ..voluto dal Comune di Roma per lo spostamento di tutti gli Uffici Giudiziari della Capitale in zona Tiburtina, con restituzione degli immobili di Piazzale Clodio, Viale Giulio Cesare e Piazza Adriana." Riproduciamo testualmente la parte della mail di convocazione.
Abbiamo espresso e continueremo ad esprimere totale contrarietà al progetto ,peraltro molto generico , che rischia di appensantire non poco le difficoltà in cui versa la giustizia a Roma.
Lo spostamento degli uffici giudiziari in un quadrante urbanisticamente opposto provocherebbe solo disagi gravissimi all'utenza ,agli impiegati amministrativi, agli avvocati ai magistrati tutti senza risolvere nessuna delle problematiche strutturali .
Non solo ..una proposta simile ,per l'impatto che avrebbe per tutta la città ,dovrebbe essere discussa pubblicamente e non solo con gli "addetti ai lavori" . Vediamo solo gli enormi costi e gli altrettanto enormi svantaggi di una scelta simile.
Roma è l'unica metropoli europea ,e forse al mondo, nella quale si ragiona in termini di concentrazione in un un'unica "città giudiziaria"- e non di decentramento "funzionale" degli uffici giudiziari .Sarebbe bello invece immaginare proprio il contrario :una giustizia strutturalmente più "vicina" ai cittadini e, perciò sull'esempio di tutte le grandi capitali con più aree distrettuali urbane municipali .
Servirebbe un sistema giudiziario urbano meno ingolfato e magari anche più rapido a vantaggio di tutti i soggetti coinvolti,non ultimi proprio i cittadini -utenti,dotato di risorse adeguate e di strutture informatiche funzionanti e funzionali ,non concentrato in un'unica (maxi) sede ..ma semmai suddiviso in più distretti .E proprio questo è il modello di tutte le grandi aree metropolitane . Perchè a Roma non può essere realizzato ?
Riteniamo che la capitale meriti ben altre soluzioni e ben altre idee per la giustizia .
E diciamo un NO semplice , chiaro,forte ed inequivocabile a simili "progetti" ...

giovedì 6 dicembre 2007

Perchè tutto cambi .. consultazione

Attendiamo alla prova dei fatti la nuova giunta ,sulla quale pesano molte aspettative.. Eppure un segnale di apertura e di cambiamento ci sarebbe ..e sarebbe davvero molto semplice ..ascoltare la base associativa . Immaginiamo una ampia consultazione sulle tematiche fondamentali che peraltro ogni giorno sono affrontate nelle varie mailing list . Vorremmo vedere la base dei magistrati esprimersi chiaramente (e liberamente) sulle incompatibilità ANM /CSM ,sul presente e sul futuro di questa professione e sulle proposte per migliorare le nostre condizioni di lavoro .. Vorremmo vedere e sentire non solo opinioni ,per quanto autorevoli ,ma proposte ,non solo premesse e promesse ,ma idee condivise e condivisibili al di là di schieramenti tanto virtuali quanto apparentemente precostituiti. Vorremmo il "passo indietro" degli apparati rispetto alle istituzioni che è poi lo stesso passo indietro che oggi si chiede ,lo abbiamo detto e ripetuto,da parte di tutti gli apparati di "appartenenza" (come partiti e anche sindacati ) da parte della società civile.. Vorremmo risposte chiare e non parole.

lunedì 3 dicembre 2007

Essere "sopratutto" sindacato


Non ci stanchiamo di chiedere alla ANM in sede nazionale e locale di essere "sopratutto" sindacato . Indipendenza della magistratura e saper "essere" sindacato è tutt'uno : dare voce alla categoria ,farne capire i problemi reali anzichè rincorrere protettorati politici ,far capire le esigenze dei magistrati "lavoratori" in termini di dignità professionale (e non solo retributiva) e di comprensione delle loro condizioni di lavoro ,dovute a incongruità organizzative e normative ..questo è il primo compito della ANM . Qualcuno ha detto (e noi siamo d'accordo) che bisogna avere sempre la "schiena dritta"..appunto si tratta esattamente di questo. Si tratta proprio di non piegarsi alle esigenze del consenso (anche interno alla categoria) e "saper essere" coerenti e informati ,pronti al dialogo ed all'innovazione e non arroccati su posizioni arretrate in nome della difesa pura e semplice dell'esistente . Dobbiamo "saper essere" capaci di dire di NO quando è il momento adatto e non solo NI a seconda di chi è l'interlocutore . Dobbiamo "saper" essere magistrati in grado di pensare con la propria testa e non "a forza" di slogan e di luoghi comuni..

domenica 2 dicembre 2007

Attacco allONU ? La realtà della disinformazione mediatica e il relativismo nel diritto


Attacco del Papa all'ONU ? Ecco i titoli allarmati.. peraltro solo di giornali italiani .
Tensione tra Ratzinger e l'Onu :
«Relativismo morale domina Onu» Il Papa critica, l'Onu risponde: "Noi fondati sui diritti umani", Duro attacco del Papa all'Onu "Dimentica la dignità dell'uomo".

E questo è invece il discorso pronunciato dal Papa :
http://magisterobenedettoxvi.blogspot.com/2007/12/il-papa-incoraggio-le-ong-ad-opporre-al.html
..basta confrontare i testi e scoprire che la polemica è davvero forzatamente costruita ,oltre che prova di senso ..
Afferma Benedetto XVI :

"..spesso il dibattito internazionale appare segnato da una logica relativistica che pare ritenere, come unica garanzia di una convivenza pacifica tra i popoli, il negare cittadinanza alla verità sull’uomo e sulla sua dignità nonché alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale. Viene così di fatto ad imporsi una concezione del diritto e della politica, in cui il consenso tra gli Stati, ottenuto talvolta in funzione di interessi di corto respiro o manipolato da pressioni ideologiche, risulterebbe essere la sola ed ultima fonte delle norme internazionali. I frutti amari di tale logica relativistica nella vita internazionale sono purtroppo evidenti: si pensi, ad esempio, al tentativo di considerare come diritti dell’uomo le conseguenze di certi stili egoistici di vita, oppure al disinteresse per le necessità economiche e sociali dei popoli più deboli, o al disprezzo del diritto umanitario e ad una difesa selettiva dei diritti umani."
Basta leggere ...ma ci rendiamo conto che oggi è la cosa più difficile ..il Papa ha semplicemente ribadito la centralità della persona nella sua dignità ,contro ogni compromesso "politico" che finisca per non tenerne conto. Piuttosto è verissimo che l'attacco ,puramente mediatico finisce per confermare il problema della disinformazione orchestrata e organizzata .
C'entra forse la critica ,contenuta nella Spe Salvi, al relativismo marxista ?
Nessuno ,come Papa Benedetto XVI ha mai tentato e percorso fino in fondo la via del dialogo tra Fede e ragione ,e questo ,evidentemente allarma davvero congregazioni e salotti del pensiero "unico" del compromesso a atutti i costi ,compresi quelli in termini di svendita dei valori centrali della dignità di ogni persona..E questo dovrebbe essere un atteggiamento anche autenticamente laico e davvero liberale.E poi proprio di questa concezione relativistica del diritto proprio in Italia si colgono forse frutti ancora più amari...

sabato 1 dicembre 2007

Insieme per la sicurezza dei cittadini ...


Siamo vicini ai lavoratori delle forze di polizia e aderiamo totalmente alle loro giuste richieste per una sicurezza vera senza se e senza ma..

http://www.ansa.it/opencms/export/site/visualizza_fdg.html_42129968.html
SICUREZZA: LA PROTESTA DI PIAZZA DEI SINDACATI DI POLIZIA
ROMA - Decine di migliaia gli agenti di polizia, di polizia penitenziaria e i vigili del fuoco in piazza per la manifestazione di protesta organizzata dai sindacati autonomi Sap, Sappe, Sapas (il sindacato della polizia ambientale e forestale) e Conapo. ''contro l'operato del Governo in materia della sicurezza'', ''per denunciare l'assenza di risorse finanziarie per elevare gli standard di sicurezza e migliorare la qualita' della vita dei cittadini''. Centomila a Roma, almeno 20.000 a Milano, secondo i sindacati. Al corteo di Roma con gli agenti anche il leader centrista Casini che dice: 'avrei visto bene qui anche Berlusconi e Veltroni', e l'ex ministro di An Maurizio Gasparri: ''un governo che costringe le forze di polizia in piazza e' politicamente morto''. Il Cavaliere, da Palermo, commenta: 'la protesta e' la voce del popolo italiano'. Protesta sacrosanta, il governo ha fatto poco, dice il leader della Cisl Raffaele Bonanni.
AMATO: MI STO IMPEGNANDO PER AUMENTARE STANZIAMENTI
ROMA - Il ministro dell'Interno, Giuliano Amato, si sta ''personalmente impegnando perche' la Camera migliori gli stanziamenti per le forze dell'ordine''. E, comunque, sono stati gia' ottenuti 69 milioni in piu' nel 2008 per i fondi per gli straordinari''. E' quanto sottolinea lo stesso ministro, in una dichiarazione.
''La manifestazione -afferma Amato - pone questioni reali, perche' le risorse finanziarie per gli uomini e i mezzi delle forze dell'ordine sono un elemento essenziale per quell'elevato livello di sicurezza che il Governo si e' impegnato a garantire ai cittadini. Il Viminale ha da tempo avviato una riorganizzazione interna per riqualificare e rendere piu' produttiva la spesa. Ma questo non puo' bastare. E la Finanziaria non potra' non tenerne conto''. Il ministro dell'Interno sottolinea, quindi, che ''i saldi per la pubblica sicurezza, dopo le modifiche approvate al Senato sul testo originario presentato dal Governo, sono senza dubbio insoddisfacenti (i fondi sono in linea con quelli della scorsa Finanziaria). Mi sto personalmente impegnando, percio' - spiega - perche' la Camera migliori gli stanziamenti per le forze dell'ordine, puntando in particolare su tre capitoli: una integrazione dei fondi per gli straordinari, piu' risorse per il rinnovo del parco mezzi, nuove assunzioni. Ringrazio in questo senso i colleghi parlamentari dell'opposizione che anche oggi hanno espresso il loro convinto intendimento di sostenermi a questo fine''. ''La manovra - continua il responsabile del Viminale - va giudicata alla fine del suo percorso parlamentare. Ed e' sicuramente un primo risultato importante l'aver ottenuto, come ha garantito ieri il relatore alla Finanziaria alla Camera, 69 milioni di euro per il ripristino dei fondi per gli straordinari per le forze di
sicurezza. Sulla questione dell'articolo 36, infine - conclude Amato - sara' garantito il massimo coinvolgimento dei sindacati sulla riorganizzazione cui si sta lavorando. Si procedera' concertando con i diretti interessati le soluzioni da adottare''.
MASTELLA, VA FATTO DI PIU' PER FORZE POLIZIA
ROMA - ''Il governo si e' attivato per aiutare le forze di polizia, ma sicuramente va fatto di piu'''. Lo afferma il ministro della Giustizia e leader dei Popolari Udeur Clemente Mastella. ''Il ruolo della polizia - sottolinea il guardasigilli - e' fondamentale in ogni societa' democratica. Il governo, fin dal suo insediamento, ha cercato di fare di piu' in tal senso, ma e' chiaro che bisogna aumentare gli sforzi. Servono quindi iniziative ancora piu' concrete - conclude Mastella - per sostenere in modo maggiormente incisivo le forze dell'ordine''.

La logica del Conte zio 2 (chi vi ricorda ? )




Chi vi ricorda ??



Alessandro Manzoni ,I promessi sposi cap. XVIII




"..Attilio, appena arrivato a Milano, andò, come aveva promesso a don Rodrigo, a far visita al loro comune zio del Consiglio segreto. (Era una consulta, composta allora di tredici personaggi di toga e di spada, da cui il governatore prendeva parere, e che, morendo uno di questi, o venendo mutato, assumeva temporaneamente il governo).



Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c'era il suo compagno.



Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d'occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro.



A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c'è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per un'occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui. Per non dir altro, il conte duca l'aveva trattato con una degnazione particolare, e ammesso alla sua confidenza, a segno d'avergli una volta domandato, in presenza, si può dire, di mezza la corte come gli piacesse Madrid, e d'avergli un'altra volta detto a quattr'occhi, nel vano d'una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re. Fatti i suoi complimenti al conte zio, e presentatigli quelli del cugino, Attilio, con un suo contegno serio, che sapeva prendere a tempo, disse: - credo di fare il mio dovere, senza mancare alla confidenza di Rodrigo, avvertendo il signore zio d'un affare che, se lei non ci mette una mano, può diventar serio, e portar delle conseguenze... - Qualcheduna delle sue, m'immagino. - Per giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio cugino. Ma è riscaldato; e, come dico, non c'è che il signore zio, che possa... - Vediamo, vediamo. - C'è da quelle parti un frate cappuccino che l'ha con Rodrigo e la cosa è arrivata a un punto che... - Quante volte v'ho detto, all'uno e all'altro, che i frati bisogna lasciarli cuocere nel loro brodo? Basta il da fare che dànno a chi deve... a chi tocca... - E qui soffiò. - Ma voi altri che potete scansarli... - Signore zio, in questo, è mio dovere di dirle che Rodrigo l'avrebbe scansato, se avesse potuto. E il frate che l'ha con lui, che l'ha preso a provocarlo in tutte la maniere... - Che diavolo ha codesto frate con mio nipote? - Prima di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa professione di prendersela coi cavalieri. Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta di là; e ha per questa creatura una carità, una carità... non dico pelosa, ma una carità molto gelosa, sospettosa, permalosa. - Intendo, - disse il conte zio; e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica, balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere. - Ora, da qualche tempo, - continuò Attilio, - s'è cacciato in testa questo frate, che Rodrigo avesse non so che disegni sopra questa... - S'è cacciato in testa, s'è cacciato in testa: lo conosco anch'io il signor don Rodrigo; e ci vuol altro avvocato che vossignoria, per giustificarlo in queste materie. - Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella creatura, incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo: è giovine, e finalmente non è cappuccino; ma queste son bazzecole da non trattenerne il signore zio; il serio è che il frate s'è messo a parlar di Rodrigo come si farebbe d'un mascalzone, cerca d'aizzargli contro tutto il paese... - E gli altri frati? - Non se ne impicciano, perché lo conoscono per una testa calda, e hanno tutto il rispetto per Rodrigo; ma, dall'altra parte, questo frate ha un gran credito presso i villani, perché fa poi anche il santo, e... - M'immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote. - Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso. - Come? Come? - Perché, e lo va dicendo lui, ci trova più gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perché questo ha un protettor naturale, di tanta autorità come vossignoria: e che lui se la ride de' grandi e de' politici, e che il cordone di san Francesco tien legate anche le spade, e che... - Oh frate temerario! Come si chiama costui? - Fra Cristoforo da *** - disse Attilio; e il conte zio, preso da una cassetta del suo tavolino, un libriccino di memorie, vi scrisse, soffiando, soffiando, quel povero nome. Intanto Attilio seguitava: - è sempre stato di quell'umore, costui: si sa la sua vita. Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi, voleva competere coi cavalieri del suo paese; e, per rabbia di non poterla vincer con tutti, ne ammazzò uno; onde, per iscansar la forca, si fece frate. - Ma bravo! ma bene! La vedremo, la vedremo, - diceva il conte zio, seguitando a soffiare. - Ora poi, - continuava Attilio, - è più arrabbiato che mai, perché gli è andato a monte un disegno che gli premeva molto molto: e da questo il signore zio capirà che uomo sia. Voleva costui maritare quella sua creatura: fosse per levarla dai pericoli del mondo, lei m'intende, o per che altro si fosse, la voleva maritare assolutamente; e aveva trovato il... l'uomo: un'altra sua creatura, un soggetto, che, forse e senza forse, anche il signore zio lo conoscerà di nome; perché tengo per certo che il Consiglio segreto avrà dovuto occuparsi di quel degno soggetto. - Chi è costui? - Un filatore di seta, Lorenzo Tramaglino, quello che... - Lorenzo Tramaglino! - esclamò il conte zio. - Ma bene! ma bravo, padre! Sicuro... infatti..., aveva una lettera per un... Peccato che... Ma non importa; va bene. E perché il signor don Rodrigo non mi dice nulla di tutto questo? perché lascia andar le cose tant'avanti, e non si rivolge a chi lo può e vuole dirigere e sostenere? - Dirò il vero anche in questo, - proseguiva Attilio. - Da una parte, sapendo quante brighe, quante cose ha per la testa il signore zio... - (questo, soffiando, vi mise la mano, come per significare la gran fatica ch'era a farcele star tutte) - s'è fatto scrupolo di darle una briga di più. E poi, dirò tutto: da quello che ho potuto capire, è così irritato, così fuor de' gangheri, così stucco delle villanie di quel frate, che ha più voglia di farsi giustizia da sé, in qualche maniera sommaria, che d'ottenerla in una maniera regolare, dalla prudenza e dal braccio del signore zio. Io ho cercato di smorzare; ma vedendo che la cosa andava per le brutte, ho creduto che fosse mio dovere d'avvertir di tutto il signore zio, che alla fine è il capo e la colonna della casa... - Avresti fatto meglio a parlare un poco prima. - È vero; ma io andavo sperando che la cosa svanirebbe da sé, o che il frate tornerebbe finalmente in cervello, o che se n'anderebbe da quel convento, come accade di questi frati, che ora sono qua, ora sono là; e allora tutto sarebbe finito. Ma... - Ora toccherà a me a raccomodarla. - Così ho pensato anch'io. Ho detto tra me: il signore zio, con la sua avvedutezza, con la sua autorità, saprà lui prevenire uno scandolo, e insieme salvar l'onore di Rodrigo, che è poi anche il suo. Questo frate, dicevo io, l'ha sempre col cordone di san Francesco; ma per adoprarlo a proposito, il cordone di san Francesco, non è necessario d'averlo intorno alla pancia. Il signore zio ha cento mezzi ch'io non conosco: so che il padre provinciale ha, com'è giusto, una gran deferenza per lui; e se il signore zio crede che in questo caso il miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, lui con due parole... - Lasci il pensiero a chi tocca, vossignoria, - disse un po' ruvidamente il conte zio. - Ah è vero! - esclamò Attilio, con una tentennatina di testa, e con un sogghigno di compassione per sé stesso. - Son io l'uomo da dar pareri al signore zio! Ma è la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare. E ho anche paura d'aver fatto un altro male, - soggiunse con un'aria pensierosa: - ho paura d'aver fatto torto a Rodrigo nel concetto del signore zio. Non mi darei pace, se fossi cagione di farle pensare che Rodrigo non abbia tutta quella fede in lei, tutta quella sommissione che deve avere. Creda, signore zio, che in questo caso è proprio... - Via, via; che torto, che torto tra voi altri due? che sarete sempre amici, finché l'uno non metta giudizio. Scapestrati, scapestrati, che sempre ne fate una; e a me tocca di rattopparle: che... mi fareste dire uno sproposito, mi date più da pensare voi altri due, che, - e qui immaginatevi che soffio mise, - tutti questi benedetti affari di stato. Attilio fece ancora qualche scusa, qualche promessa, qualche complimento; poi si licenziò, e se n'andò, accompagnato da un - e abbiamo giudizio, - ch'era la formola di commiato del conte zio per i suoi nipoti.