lunedì 2 febbraio 2009

Il discorso di Giulio Romano per l'inaugurazione dell'anno giudiziario a Messina

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO 2009

INTERVENTO DEL RAPPRESENTANTE DEL CSM - GIULIO ROMANO


Premessa - La giustizia civile - Il sistema penale - La magistratura onoraria - Il “correntismo” - Il CSM - La sezione disciplinare - Le intercettazioni - Il concorso in magistratura


Sig. Presidente,
di solito questa, per il rappresentante del CSM, è principalmente l’occasione per riassumere i dati relativi all’attività svolta dall’organo di autogoverno della magistratura.
Tuttavia le sempre crescenti difficoltà in cui versa il sistema giustizia, la discussione su importanti riforme forse anche a livello costituzionale, le polemiche circa alcune decisioni del Consiglio Superiore, mi inducono ad affrontare, sia pure in estrema sintesi, le questioni oggi di maggior rilievo.

La giustizia civile.
La grave inefficienza del sistema è sotto gli occhi di tutti. Per porvi rimedio si continua a parlare di come rendere più rapido il processo civile. Interventi in tale direzione sono i benvenuti, ma va detto chiaramente che non basteranno. Un buon giudice civile può scrivere circa venti sentenze al mese e ciò oggi già accade; se anche avessimo un processo in grado di far concludere un caso in un solo giorno, i procedimenti si accumulerebbero, sulla scrivania di chi deve deciderli, in attesa del loro turno. Poiché non è pensabile aumentare a dismisura il numero dei giudici e dei dipendenti della giustizia, occorre allora focalizzare alcune tra le ragioni di una domanda semplicemente fuori controllo:
a) una litigiosità, anche per le piccolissime cose, che affonda le sue radici in un tessuto sociale senza valori adeguati, dove per troppo tempo le pagine di educazione civica sono sostanzialmente scomparse dai sussidiari, dove il rispetto delle ragioni altrui fa fatica ad imporsi, dove le televisioni hanno preso atto che le trasmissioni che raccolgono maggior interesse sono quelle della cd. “TV spazzatura”
b) difficoltà economiche ed impunità che spingono molti ad agire in giudizio temerariamente ed altri a resistere ingiustificatamente, individuando nel solo scorrere del tempo un fattore di guadagno.
Ecco dunque che si possono fare tutti i miglioramenti processuali che si vogliono, ma non si può sfuggire ad una considerazione: se si intende mantenere questo livello di domanda occorre quanto più possibile rinunciare alla motivazione della decisione ed ai vari gradi di giudizio (mi interessa di più sapere definitivamente oggi se ho o no ragione oppure dopodomani perché ho ragione, sulla base peraltro di un ragionamento che dovrà affrontare ulteriori gradi di giudizio?); se invece si vuole dare la giusta importanza alla funzione giurisdizionale bisogna, nel breve periodo, scoraggiare l’abusivo ricorso alla stessa prevedendo severissimi, ineludibili, deterrenti economici, all’agire e resistere sconsiderato; bisogna poi, nel medio e lungo termine, creare le premesse per una crescita culturale del paese.
Va inoltre programmato, ormai guardando lontano, un accesso dei giovani alla professione forense che sia sostenibile rispetto alle capacità operative di cui si ritiene di dotare il sistema.

Il sistema penale
Come spesso in passato, si sente parlare separatamente di modifiche del sistema penale (depenalizzazione) o di quello processuale.
Il processo penale è strutturato in maniera complessa perché serve ad accertare se una persona deve andare in prigione, così le garanzie devono essere massime.
I reati previsti dalla legge sono tantissimi ma, se verifichiamo quali sono quelli commessi da coloro che sono effettivamente in carcere, scopriamo che si tratta sempre degli stessi dieci, forse venti delitti.
Questo significa che utilizziamo la più complessa delle macchine anche quando non ve ne sarebbe concreto bisogno.
E non è tutto, per come si è andato sviluppando il sistema, accade che per un reato modestissimo si impegni la giustizia in tre estenuanti gradi di giudizio (perché dovrei rinunciare a sperare negli intoppi del processo per avere una riduzione esigua di una pena che tanto non sconterò?) mentre invece per quelli gravi, nello sconcerto generale, si baratta la punizione con un po’ di comprensione per le difficoltà della macchina giustizia.
Per converso si dimentica che anche sanzioni semplici, comminate quasi senza garanzie, possono costituire un valido deterrente: non ci sono difese e carte bollate quando mettono le ganasce all’automobile ma, se ne vedo una che le ha, resto terrorizzato e mai parcheggerò anche io nello stesso posto.
Ecco allora che si possono attuare le riforme che si vogliono, ma non si inciderà significativamente se non innovando profondamente il nostro modo di pensare.
Occorre diversificare le sanzioni e calibrare i modelli di accertamento processuale sulla gravità e rilevanza delle punizioni comminabili. Bisogna superare gli sconti di pena (eticamente inaccettabili) e favorire l’accesso alle attuali misure alternative come contropartita alla scelta, tempestiva, di modelli processuali che consentano al sistema di risparmiare sul processo e di addivenire presto alla definizione del giudizio.

La magistratura onoraria.
E’ vero che ormai la magistratura onoraria concorre alla definizione di buona parte, della domanda di giustizia (anche se di quella meno complessa).
Si confrontano la pretesa dei giudici onorari, di raggiungere la stabilità e l’opposizione della magistratura professionale, comprensibilmente timorosa di veder stabilizzata e sostanzialmente equiparata, una categoria che, per definizione, non possiede gli stessi livelli di preparazione.
Due cose sono certe.
La prima è che la magistratura onoraria è in definitiva una forma di “precariato stabilizzato”.
Il precariato per un verso genera insicurezza nelle vite degli interessati, per un altro riduce l’interesse del sistema a curarne la formazione e verificarne al meglio l’adeguatezza.
La seconda è che in assenza di una rivisitazione organica del sistema, a volte, contraddittoriamente, accade che il magistrato professionale si occupi di cose modeste e quello onorario di cose di maggior rilievo.
Occorre allora superare il precariato, di per sé sia ingiusto sia dannoso, tracciando al contempo una netta linea orizzontale che individui, al di sopra, le competenze della magistratura professionale, al di sotto quelle, parimenti rispettabili ma meno complesse, dei giudici onorari.
Solo così si potrà dare ai cittadini una magistratura onoraria attrezzata al meglio ed assolutamente credibile, per la soluzione di controversie che sono modeste ma riguardano la vita di tutti i giorni di tanti.

Il “correntismo”
Come altri ho ricoperto alternativamente cariche istituzionali ed associative (consiglio giudiziario, comitato direttivo e giunta esecutiva dell’ANM, CSM). Per farlo ho partecipato a elezioni, così come il sistema impone. La competizione elettorale ha in sè pregi ma anche un limite: è del tutto naturale che chi ti ha votato si aspetti che, più o meno a parità di altri parametri, tu lo sostenga. La partecipazione ad organismi ora istituzionali ora associativi comporta il rischio che nelle proprie determinazioni si sia spinti in qualche misura anche dall’intento di aumentare la propria forza elettorale in vista di successivi traguardi.
Così l’attività l’associativa (e la sua componente sindacale che ne dovrebbe esser parte significativa con importanti riflessi anche sulla funzionalità del servizio e quindi sulla soddisfazione dei cittadini) rischia di essere condizionata dagli altri, pur legittimi, obiettivi di chi la pone in essere; al contempo l’attività istituzionale perde di credibilità, potendosi pensare che chi la esercita sia guidato più da interessi personali e dal dover rendere conto al suo elettorato, piuttosto che dal doveroso desiderio di mettere il migliore al “posto giusto”.
Tutto questo causa disfunzioni sia nella misura in cui è vero (e non lo si può negare radicalmente) sia nella misura in cui non lo è. Infatti accade ormai spessissimo che il collega il quale non vince in un concorso, preferisca pensare e dire che è stato superato da un “raccomandato”, piuttosto che accettare che qualcuno sia stato ritenuto migliore di lui. Tutti ciò ha ormai diffuso, anche a livello di opinione pubblica, la convinzione dell’esistenza di un fenomeno degenerativo che non nego e che va affrontato, ma che ha dimensioni meno rilevanti di quel che ormai si crede.
D’altra parte mi sia permesso di dire che, se è innegabile che i magistrati eletti scontino le contraddizioni del sistema, non può neanche ritenersi verosimile che, scelti perché conosciuti come per bene, si trasformino poi in persone scorrette, che antepongono il loro interesse personale di magistrati in carriera a quello che loro stessi hanno come figli, coniugi, genitori, in definitiva cittadini (se concorro a nominare il peggiore come procuratore della Repubblica forse traggo un qualche vantaggio di carriera ma contribuisco a ridurre la sicurezza dei miei familiari quando la sera tornano a casa).
Certo mi si può obiettare che non sono credibile, quando evidenzio le contraddizioni di un sistema di cui mi sono avvalso, ma non posso, ora che ho preso coscienza del problema, negarlo. Posso solo impegnarmi per il futuro, dicendo che non proseguirò su questa strada; posso solo dire che uscito dal CSM non mi ricandiderò all’ANM, alimentando in questo modo il sospetto di aver potuto utilizzare la funzione consiliare per aumentare il mio elettorato e così la mia influenza sui futuri consiglieri, magari per ottenere la dirigenza di un tribunale o di una procura prima del dovuto.

Il CSM
Il discorso deve prendere le mosse da quello che ho appena detto sul “correntismo”. Non si cambia la struttura del CSM prevista nella Costituzione perché qualcosa non va. Non è il sistema pensato dai costituenti che è sbagliato; quel che non funziona più al meglio è il modo il cui esso trova attuazione. Abbiamo la grande responsabilità di proporre un diverso modello di rapporto tra ANM e CSM. Di questo però devono rendersi conto tutti: anche chi, nella “base”, si lamenta e magari si dimette dall’ANM, perché qualcun altro gli è stato preferito per questo o quell’incarico (così dimostrando un non condivisibile approccio all’associazionismo ed in definitiva che se c’è il “correntismo”, vale a dire la “offerta”, è perché c’è la “domanda”).
Se poi proprio si intende cambiare il CSM, allora occorre prima studiarne l’organizzazione. Prima di discutere chi lo deve comporre, serve stabilire di chi ha bisogno. Le esigenze della commissione che si occupa di tabelle ed organizzazione degli uffici sono diverse da quelle della commissione che si occupa di valutazioni di professionalità; la presenza di un maggior numero di componenti laici può essere utile in certi casi e meno in altri. Solo analizzando l’aspetto organizzativo e funzionale delle strutture interne, come evolutosi in alcuni decenni (anche ad esempio approfondendo l’utilità o meno di commissioni che sono solo referenti) si possono avere le idee più chiare circa il tipo di professionalità che serve per comporle. Diversamente si rischia di avere un CSM meno efficiente o di consegnarlo, per la stragrande maggioranza delle pratiche, alle scelte delle strutture di segreteria e scientifica (correndo il rischio di far rientrare dalla finestra problemi che si pensava di aver risolto).
Qualche ulteriore notazione.
Una riguarda le cd. “pratiche a tutela”, attraverso le quali, è stato detto, il Consiglio ha finito con il fare politica. La critica non è del tutto infondata ma è vero anche che a volte i magistrati sono stati oggetto di attacchi impropri. In un paese normale il CSM non deve tutelare, ma in un paese normale la magistratura è rispettata. Una anomalia consegue ad un'altra anomalia, solo il reciproco rispetto delle ragioni dell’altro, può ricondurre il sistema alla fisiologia.
Un’altra attiene alla professionalità e discende dalla analisi particolare dei compiti del Consiglio. Il fatto di esser stato eletto non mi trasforma automaticamente in un esperto di formazione, di organizzazione, di valutazione delle attitudini a dirigere e così via. Oggi l’assegnazione alle commissioni e la presidenza delle stesse prescindono completamente dalla verifica di una specifica professionalità in un determinato settore; anzi, in qualche misura è obbligatoria la “rotazione”. Un simile assetto, sotto il profilo della scienza dell’organizzazione è scarsamente comprensibile e finisce con il favorire le degenerazioni del “correntismo” (o dell’appartenenza politica), le cui logiche magari vanno ad integrare insufficienti capacità specifiche.
Una ancora inerisce alla separazione di carriere. Ho iniziato da pubblico ministero, ho svolto le funzioni inquirenti e requirenti al meglio delle mie possibilità ma sono certo che se vi tornassi ora, dopo tanti anni passati da giudice, le svolgerei meglio. Sono dunque contrario alla separazione ed auspico anzi che possano diventare pubblici ministeri solo coloro che hanno maturato una lunga esperienza da giudici (magari nel settore civile che è quello dove ancor di più si può assimilare la cultura della terzietà). Occorre però evitare, come invece accade ora, che sia a livello locale sia a livello centrale, pubblici ministeri facciano parte degli organismi che valutano la professionalità dei giudici che magari hanno respinto le loro richieste. Non si chiede al centravanti che si è visto negare il rigore di dare la pagella all’arbitro. Quando si tratta di valutazioni di professionalità, solo una netta separazione è garanzia di indipendenza e, per gli avvocati, di assoluta equidistanza.
L’ultima infine: l’idea di un unico CSM per tutte le magistrature (sia pure con diverse articolazioni) potrebbe finalmente avviare il percorso verso la eliminazione di differenze tra le diverse magistrature, che non hanno ragione di persistere e che avviliscono quella ordinaria la quale, più delle altre, sopporta l’impatto con le difficoltà della giurisdizione ed affronta giornalmente i problemi della gente).

La sezione disciplinare
La sezione disciplinare del CSM è al centro sia di critiche sia di proposte di modifica. Comprendo che poichè il fenomeno del “correntismo” appare sempre più invasivo, si possa pensare che anche la sezione non ne sia immune. Anche se so che, essendone parte, posso essere ritenuto “a credibilità attenuata”, permettetemi di dire con forza che quello disciplinare è prima di tutto un giudice e come tale si comporta. Nel 2008 a fronte di 24 assoluzioni vi sono state 28 condanne, di cui tre alla rimozione, a cui vanno aggiunte 17 estinzioni per cessata appartenenza all’ordine giudiziario (quindi con gli stessi effetti sostanziali della rimozione).
Si tratta di numeri che, comparati a quelli di altre categorie, rassicurano sulla serietà del controllo disciplinare ed è difficile pensare che i condannati fossero tutte persone che non avevano votato per il CSM (o l’ANM). D’altra parte a chi dovesse nutrire sfiducia, mi sembra giusto far notare che personalmente (e non sono certo l’unico) sono stato relatore ed estensore della sentenza di condanna per ritardi di un collega che ricopre una carica nello stesso gruppo con il quale sono stato eletto.
Capisco però anche che il giudicare chi ti ha votato possa apparire inopportuno. Al riguardo va detto che non soccorre neanche l’istituto dell’astensione perché, atteso che i componenti la sezione sono eletti tra quelli a loro volta eletti al CSM, il rapporto giudice-giudicato/eletto-elettore è del tutto fisiologico; d’altra parte, ragionando al contrario, in tutti i procedimenti qualcuno dovrebbe astenersi, anche tra i supplenti.
Quindi, pur se di regola il controllo deontologico degli appartenenti ad una categoria avviene all’interno della stessa, trovo auspicabile che la magistratura ordinaria, per il primario ruolo svolto, si doti di un sistema disciplinare inattaccabile anche sotto il profilo dell’apparenza.
Però vi invito a riflettere su una cosa: molti dei procedimenti riguardano ritardi nel deposito dei provvedimenti. Al cittadino non interessa che colui che ha ritardato tre anni sia condannato all’ammonimento o alla censura. Al cittadino interessa che il ritardo venga intercettato il più presto possibile. E allora noi abbiamo bisogno di un sistema disciplinare di tipo completamente diverso che incida sul problema ritardo. Come è possibile perseguire un simile obiettivo? Oggi i dirigenti degli uffici che si accorgono che un collega accumula ritardi possono fare poco o niente; se e quando arriva l’ispezione ministeriale, i colleghi dell’ispettorato sono vissuti come intrusi, ai quali il problema va minimizzato, se non nascosto.
Occorre dunque uno sforzo di ideazione innovativa. Occorre pensare ad un sistema nel quale si vada alla ricerca del ritardo, inteso come danno “in progress”, non per punire, ma per aiutare il collega ad ovviarvi, da solo o in modo organizzato. Serve invitare i dirigenti alla ricerca delle cause dei ritardi e all’analisi delle stesse; serve coinvolgere in questa ricerca ed analisi l’Ispettorato, che non deve essere vissuto come un nemico ma come una struttura con cui collaborare, composta da colleghi che hanno esperienza nell’analisi del problema e nella ricerca delle soluzioni; serve una sezione disciplinare che adotti, più che sanzioni, provvedimenti cautelari d’urgenza da utilizzarsi - magari di concerto con la commissione che si occupa di formazione così da far ricorso all’ausilio della scienza dell’organizzazione e della psicologia del lavoro - per ovviare al ritardo mentre si verifica e riabilitare il magistrato.
Si tratta di pensare ad sistema completamente diverso con sanzioni completamente diverse.
Oggi una delle punizioni più gravi con cui può essere sanzionato il magistrato ritardatario è la sospensione dalle funzioni. E che guadagno ne ha il sistema? L’interessato continua a guadagnare un, sia pur ridotto, stipendio ma non lavora; così la sua sentenza non sarà scritta un solo giorno prima!
La sanzione successiva è la rimozione che però, paragonabile all’ergastolo, si attaglia a chi ha commesso infrazioni dolose, non colpose. Per l’infrazione colposa ci vorrebbe una sanzione che adesso non esiste nel sistema disciplinare (pur essendo prevista altrove). Così si spiegano casi che al cittadino appaiono di incomprensibile indulgenza. Servirebbe invece la possibilità di collocare l’interessato (temporaneamente o definitivamente) in un ruolo alternativo ed adeguato rispetto ai problemi accertati.
Se allora si vuole pensare alla modifica della composizione della disciplinare, lo si faccia pure, ma se non si ragiona sul prontuario delle sanzioni e soprattutto sui provvedimenti di urgenza rispetto ai ritardi, domani avremo forse qualche censura in più al posto di qualche ammonimento, ma per il cittadino non cambierà niente.
Quanto alla composizione della sezione va poi rilevato che la maggioranza degli incolpati è costituita da giudici di primo grado; sono loro che affrontano giornalmente l’impatto con le disfunzioni del sistema e che a volte rischiano di pagarne le conseguenze; sono loro che altre volte accettano dei rischi nel tentativo di rispondere in modo effettivo alla richiesta di giustizia; allora se devono sapere che sbagliando verranno puniti, devono anche sapere che a valutarli sarà un giudice che conosce bene le difficoltà del loro lavoro.
Così è auspicabile che il giudice disciplinare sia composto per lo più da magistrati di merito di primo grado. Se la prevalenza dovesse essere di chi non ha il “polso” dei tribunali ogni mattina, potrebbero “fioccare” condanne non giuste, avvertite come inique dalla maggior parte dei colleghi i quali, per evitare contestazioni, si attesterebbero su una soglia comportamentale minima esigibile, assolutamente esente da rischi disciplinari, così diminuendo la produttività.
Insomma, l’opposto di quello che ci serve come cittadini.
Passando al merito delle decisioni va detto che la Sezione non ha in alcun modo inteso infrangere il principio della insindacabilità delle decisioni giurisdizionali.
Il collegio disciplinare ha però chiarito, ad esempio:
a) che se dagli atti emerge una specifica controindicazione alla assunzione di una decisione, il giudice, per andare di contrario avviso, nella sua motivazione deve dimostrare di aver tenuto conto della controindicazione, nonchè spiegare sulla base di quali accertamenti e considerazioni ha ritenuto di decidere diversamente
b) che poiché nella fase delle indagini preliminari - caratterizzata da risultati di indagini che non hanno valore di prova - anche l’attribuzione solo in via di ipotesi di una condotta disdicevole può cagionare danno alla reputazione di una persona (cosa che, vera di per sé, lo è ancor più nella moderna “società mediatica”, nella quale il contenuto degli atti giudiziari va sempre maggiormente divenendo suscettibile di divulgazione e giudizio di massa) il magistrato è tenuto a sviluppare il proprio ragionamento ed esprimere il proprio convincimento in modo rigorosamente continente e conferente.

Le intercettazioni
Se il Legislatore indica come delitto una condotta vuol dire che essa è grave. Se un comportamento è grave, da cittadino auspico che il magistrato per scoprirlo possa avvalersi di tutti i mezzi di ricerca della prova previsti dall’ordinamento. Sono dunque contrario ad una restrizione dei casi nei quali è possibile ricorrere alle intercettazioni.
Ciò premesso va rilevato che nonostante il rigoroso tenore letterale del codice di procedura penale, la magistratura ha dato interpretazioni diverse e contraddittorie della legge, così allargando le maglie di norme che incidono su diritti costituzionalmente garantiti.
Questa considerazione pone ancora una volta il problema del senso di responsabilità della magistratura, del “self restraint” di giudici e pubblici ministeri e diviene questione culturale e di formazione, fino ad interessare la tecnologia, che pone a disposizione potenti strumenti prima che si possa imparare ed insegnare a farne adeguato, consapevole uso.
La vera garanzia dell’indipendenza ed autonomia dei magistrati, e fra questi dei pubblici ministeri, risiede nell’equilibrio e nella professionalità di cui danno prova.

Il concorso in magistratura
Le carenze nell’organico dei magistrati sono note. Sono in fase di svolgimento un concorso a 350 posti, un altro a 500 e già si parla di un terzo.
Mentre si alza il numero dei posti messi a concorso si deve però prendere atto che non si riesce ad ammettere agli orali tante persone quante sono le disponibilità. Poiché non si può pensare di “abbassare l’asticella”, occorre riflettere sull’adeguatezza del livello di preparazione. Il CSM deve non solo concorrere a questa riflessione ma anche trovare il modo di mettere a disposizione, di tutti ed allo stesso modo, il proprio notevole bagaglio di esperienza formativa (secondo una circolarità che vada dalle università alle scuole di specializzazione, al concorso e poi ai magistrati per tornare alle università e così via).
Solo contribuendo, sia pur indirettamente, alla preparazione degli aspiranti, si avranno magistrati migliori ed in numero adeguato; solo così si eviterà di costringere i giovani ad affiancare a scuole di specializzazione che a volte costituiscono mere ripetizioni delle università, corsi privati; solo così si permetterà loro di risparmiare tempo e denaro, eliminando uno tra i maggiori fattori di tensione che hanno portato alle difficoltà che si sono verificate nell’ultimo concorso.

Messina 31.1.09

GIULIO ROMANO
(presidente nona commissione CSM)

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